Sergio Marchionne, il grande
Marchionne ha costruito un impero transatlantico con beneficio per l’Italia. Perché mancherà alla Fiat (a noi) e perché i suoi critici dovranno ricredersi
Mancherà a tutti Sergio Marchionne, in coma irreversibile da domenica. Mancherà alla famiglia Agnelli che ha reso ancor più ricca (“ci ha insegnato a pensare diversamente”, ha riconosciuto John Elkann con il miglior omaggio che potesse fare); mancherà alla Fiat Chrysler Automobiles che ha costruito con veri colpi di genio, dal salvataggio della Fiat all’acquisizione della Chrysler senza far pagare un centesimo agli azionisti; mancherà all’Italia che ha più volte sferzato per spingerla ad acchiappare la modernità, magari per la coda; e mancherà a noi del Foglio che lo abbiamo sostenuto in un momento critico, cioè lo scontro sulla nuova organizzazione del lavoro, con la Fiom e poi con la Confindustria dalla quale è uscito sbattendo la porta, quello che è stato chiamato il modello Pomigliano.
Nelle relazioni sindacali Marchionne ha segnato uno spartiacque tra l’eterna illusione della conflittualità permanente e il bisogno di cooperazione, di collaborazione tra lavoratori e manager, tra operai e padroni, entrambi in vesti nuove, che l’era globale richiede, come hanno ben compreso la Germania, i paesi del nord Europa e persino l’America che pure è il regno del conflitto. “Non ho mai capito perché gli operai americani mi ringraziano per aver salvato loro la pelle, mentre quelli italiani la pelle vorrebbero farmela”, si chiedeva il capo della Fiat. Nella sua osservazione da Candide è condensata l’analisi impietosa, ma profonda della crisi italiana. Uomo del popolo, non s’è piegato al populismo, perché ha sempre cercato soluzioni razionali a problemi spesso irrazionali (come lo spirito anti-industriali che pervade oggi l’Italia e buona parte dell’occidente).
Un uomo del popolo, non s’è piegato al populismo, perché ha sempre cercato soluzioni razionali a problemi spesso irrazionali
La Fca ha cominciato ad assumere quando altre imprese ancora licenziavano. Uno dei tanti meriti che pochi ancora riconoscono
Marchionne ha fatto rinascere dalle ceneri la Fabbrica Italiana Automobili Torino nel 2004, poi l’ha sciolta nell’abbraccio con Chrysler nel 2009, adesso lo stesso marchio Fiat è in via d’estinzione, resteranno solo Cinquecento e Panda, tutto il resto sarà Jeep. Molti misteri avvolgono da sempre il manager spuntato dal nulla che ha lasciato il doppio petto alla Romiti per il maglioncino nero. Sulle sue origini sono fiorite leggende come sempre accade con la fama e il potere. E’ nato a Chieti nel 1952, ma il padre Concezio, carabiniere, era tornato in Abruzzo dall’Istria quando Tito aveva lanciato le persecuzioni contro gli italiani, per poi emigrare in Canada. Oscuro resta ancor oggi il grande salto al vertice della Fiat: a lanciarlo fu Umberto Agnelli, ma il suo mentore è stato Gianluigi Gabetti. Nessuno ha spiegato fino in fondo in che modo abbia convinto Barack Obama a cedergli la Chrysler senza sganciare un centesimo. Bastò davvero l’intervento di Henry Kissinger? Appartata, se non proprio segreta, anche la sua vita privata, divisa tra due continenti e quattro stati (Canada, Stati Uniti, Italia, Svizzera), una moglie, due figli, una nuova compagna, Manuela Battezzato, un colpo di fulmine scoccato sei anni fa.
La storia della Fiat coincide con la famiglia Agnelli, eppure la sua vicenda industriale è scandita da tre uomini forti che hanno guidato e tenuto a galla l’azienda. Vittorio Valletta (il primo impiegato, così si definiva il Professore) l’ha resa potente e l’ha salvata prima dai tedeschi che nel 1944 avevano deciso di portarla in Germania, poi dai comunisti che la volevano affidare agli operai, infine dagli alleati anglo-americani che intendevano chiuderla. Cesare Romiti, il Proconsole inviato da Enrico Cuccia, l’ha difesa dal terrorismo rosso e dagli errori di Gianni, l’Avvocato, e Umberto, il Dottore, che l’anno gestita nel gran turbine degli anni ’70. Infine Marchionne: l’ha presa quando oramai era “tecnicamente fallita” dopo la morte, nel giro di poco più di un anno, dei fratelli Agnelli.
Abile nell’uso dei messaggi, Marchionne è riuscito a far salire il titolo in Borsa da 1,6 a 16,4 euro garantendo pingui dividendi. La Fca adesso macina utili (3,5 miliardi nel 2017, ma nel primo trimestre di quest’anno ha fatto meglio della General Motors, nonostante un calo dei ricavi) e viene lodata da Donald Trump perché crea posti di lavoro (negli Stati Uniti), però resta debole in Europa e non ha mai sfondato in Cina. Toccata dallo scandalo sulle emissioni (anche se non come la Volkswagen) ha una serie di contestazioni da parte delle autorità americane. Dopo aver snobbato il motore ibrido e la vettura elettrica, a favore dei motori diesel e a metano, Marchionne ha stretto accordi con Google levandosi il cappello di fronte alla Tesla del visionario Elon Musk (come faceva Henry Ford davanti a un’Alfa Romeo), perché il futuro dell’auto si gioca oggi nella Silicon Valley. Tuttavia, Fca è solo un subfornitore di Waymo nata dal progetto Google per l’auto senza conducente.
Il gruppo non ha raggiunto la soglia di sicurezza: con 4 milioni e 800 mila vetture è all’ottavo posto al mondo, ben lontano da quota dieci milioni oltre la quale competono Volkswagen, Toyota e Renault-Nissan. Cadute via via Peugeot e General Motors, è spuntata brevemente la cinese Great Wall (Grande Muraglia), mentre la Volkswagen sembrava interessata soprattutto a Jeep e ai segmenti sportivi. Lo smacco più clamoroso riguarda la Formula uno. Luca di Montezemolo ha inanellato 19 titoli iridati tra piloti e costruttori, Marchionne lo ha defenestrato nel 2014, ma il cavallino rampante non ha centrato nemmeno un mondiale. La vettura è migliorata, tuttavia rimane l’eterna seconda, superata dalla Mercedes e insidiata dalla scuderia Red Bull.
Marchionne ha esercitato un’influenza importante anche in politica. E’ stato lui, non John Elkann, ad appropriarsi della funzione che aveva Gianni Agnelli, quando con le sue battute, sempre enfatizzate dai media, riusciva a lanciare messaggi in grado di influenzare il dibattito italiano e l’agenda dei governi. Super Sergio, come lo chiamavano nei momenti d’oro, ha sostenuto Mario Monti (sia pur senza risparmiagli critiche), anche nel tentativo, poi fallito, di creare una formazione politica propria. L’allora presidente del Consiglio ha dato inizio di fatto alla sua campagna elettorale nel dicembre 2012 partecipando nello stabilimento di Melfi alla presentazione del nuovo piano industriale. Il manager ha appoggiato anche Matteo Renzi, salvo poi dichiararsi deluso dopo la sconfitta al referendum sulla riforma istituzionale. Infine, ha socchiuso l’uscio al Movimento 5 Stelle: “Abbiamo visto di peggio”, ha dichiarato. Ma purtroppo non gli è stato dato il tempo di vedere il peggio del peggio.
La filiera italiana dell’auto che ha fatto da locomotiva alla ripresa, adesso è davvero appesa a un grande punto interrogativo. Mike Manley il successore di Marchionne che finora ha guidato la Jeep, conosce poco l’Italia e forse gliene importa ancor meno (a differenza di Alfredo Altavilla, decano di Fiat e braccio destro di Marchionne, che ha lasciato la compagnia ieri). Né interessa a Manley recitare quel ruolo politico-sociale che il manager dal pullover nero ha interpretato a suo modo. I suoi obiettivi adesso sono due: entrare finalmente in Asia e maritarsi con un buon partito, in sostanza portare a termine le incompiute di Marchionne. L’alleanza o, come in realtà vorrebbe Elkann, la fusione con un gruppo maggiore, oggi potrebbe diventare più facile. Il tentativo di prendere la Opel subito dopo l’operazione Chrysler è stato bocciato da un blocco d’interessi tedeschi (benedetto da Angela Merkel) ingelositi dall’espansionismo italo-americano. L’accordo con la General Motors è fallito perché la top manager Mary Barra non voleva essere estromessa. Lo stesso è accaduto con la famiglia Peugeot: ha preferito accettare i capitali cinesi più un “aiutino” dello stato che era sempre stato orgogliosamente rifiutato per oltre un secolo, piuttosto che finire sotto il manager dal maglioncino nero. Manley non ha ancora lo status per pretendere la guida solitaria, quindi potrebbe gestire una trattativa senza creare allarmi su chi comanda.
Ma una intesa di qualche genere è resa ancor più urgente dal cambiamento nelle prospettive di mercato: da una parte il rallentamento del ciclo economico, dall’altra gli ingenti capitali necessari per compiere il salto digitale, spingono a nuove concentrazioni. Il valore di Borsa della Fca è decuplicato nell’era Marchionne e i debiti sono scesi a 2,38 miliardi con l’obiettivo di azzerarli di qui all’anno prossimo, insomma i fondamentali sono a posto e ci sono tutte le condizioni per un matrimonio con i fiocchi.
L’automobile 4.0 sarà diversa, forse elettrica (qui il punto interrogativo resta perché il futuro è in gran parte legato alla tecnologia delle batterie), forse a pilota automatico, forse auto-volante come promette Elon Musk, un altro visionario dell’industria. Non lo sappiamo, anche se questi sono gli itinerari già imboccati dai produttori giapponesi, americani, europei e cinesi, gli ultimi arrivati e forse i più aggressivi. Che Fca possa diventare Jeep, un singolo marchio sia pur di successo (grazie a una felice intuizione di Marchionne) è del tutto illusorio, il gruppo è troppo grande per far leva su una nicchia e troppo piccolo per affrontare la competizione tra giganti e la rivoluzione digitale.
E’ riuscito non solo a risollevare una Fiat fallita ma anche a far salire il titolo del 900 per cento (da 1,6 a 16,4 euro) con pingui dividendi
Accusato di aver lasciato l’Italia, invece ha ridato all’auto il glamour perduto. Lascia però incompiuta una parte del suo progetto
Una eventuale fusione lascerà Exor azionista di minoranza magari non passivo, ma in ogni caso un investitore finanziario. Un altro passo avanti verso la trasformazione della galassia Agnelli. La Ferrari è stata già scorporata e in Borsa vale 24 miliardi mentre tutta la Fca è a quota 26. Se finalmente vincerà un campionato mondiale quest’anno, riceverà un’altra spinta al rialzo. E forse diventerà davvero il perno per creare quel polo del lusso che piace a Elkann, un po’ sul modello della LVMH di Bernard Arnault. La Ferrari è stata messa in mano a Louis Carey Camilleri, un manager che viene dalla Philip Morris e anche questo è un messaggio (il marchio del tabacco è partner della Rossa). La Cnh, concorrente della Caterpillar, sarà guidata da una donna, Suzanne Heywood all’insegna della continuità. In cantiere c’è anche lo scorporo della Magneti Marelli che ha un ruolo chiave anche in vista dell’auto elettrica, con il quale si completa la concentrazione sul core business a quattro ruote.
Il futuro della Fca può diventare un problema serio per il governo italiano che si trova tra le mani una sfida superiore alle capacità dei suoi ministri, anche dei migliori. La competenza del ministro del lavoro e dello sviluppo, Luigi Di Maio, si è vista con il cosiddetto decreto dignità: se non ha letto le note di Tito Boeri figuriamoci se leggerà il bilancio della Fiat Chrysler. Ma lo stesso Giovanni Tria è un professore di economia senza nessuna esperienza industriale. Paolo Savona è stato direttore generale della Confindustria e ha lavorato al vertice di grandi banche, ma la sua idea fissa è cambiare lo statuto della Bce perché non gli basta quel che ha fatto Mario Draghi. E la Fiat Chrysler è una vera multinazionale che non guarda solo all’Europa.
Marchionne è stato accusato di aver abbandonato l’Italia e l’anatema viene lanciato anche adesso dalla sinistra radicale. In realtà, anche i suoi nemici dovrebbero riconoscere che ha ridato all’auto made in Italy il glamour che aveva perduto. La Fca è il più grande gruppo manifatturiero italiano, produce meno vetture, ma migliori e di successo (si pensi alla 500 e alla Renegade); è vero che i dipendenti sono stati ridotti e alcuni vecchi stabilimenti sono stati chiusi o ridotti al minimo come Mirafiori, però la Fca ha cominciato ad assumere quando altre imprese ancora licenziavano. Vedremo se Manley confermerà le priorità stabilite nell’ultimo piano, il testamento industriale di Marchionne. Senza di lui l’Italia sarà senza dubbio più debole, meno attraente e anche più sola: ha perso un punto di riferimento qui e nel mondo, se sono onesti e sinceri debbono riconoscerlo anche i suoi critici. Non si tratta di mettere in sordina gli insuccessi (e noi non lo abbiamo fatto), ma di valorizzare razionalmente i risultati e raccogliere la sua sfida modernizzatrice. E’ un luogo comune dire che sempre i migliori se ne vanno e lodare gli avversari quando non rappresentano più un intralcio. Ma questa volta, per davvero, non sarà con noi uno dei migliori.