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Numeri alla mano il decreto “dignità” è un autogol ideologico

Marco Fortis

Una battaglia contro il lavoro a tempo determinato è anti economica: è una forma contrattuale in crescita durante la ripresa

Intraprendere una battaglia ideologica contro il lavoro dipendente a tempo determinato, come ha fatto il tanto discusso decreto “dignità”, va contro non solo alla logica di un mercato del lavoro dove domanda e offerta si stanno oggi bilanciando nei settori più dinamici in una fase di ripresa dell’economia ma si scontra anche con i numeri. Di che cosa stiamo parlando, infatti?

   

Nel 2017 i dipendenti a tempo determinato tra i 15 e i 64 anni erano, secondo l’Eurostat, 4,7 milioni in Germania, 4,2 milioni in Spagna, 4 milioni in Francia, 3,4 milioni in Polonia e 2,7 milioni in Italia, per limitarci ai primi cinque Paesi per numeri assoluti. Quanto alla percentuale di dipendenti a termine sul totale dei dipendenti quella dell’Italia è tra le più basse in Europa, pari al 15,5 per cento, contro il 15,8 per cento della Finlandia, il 16,1 per cento della Svezia, il 16,8 della Francia, fino a salire al 21,7 per cento dei Paesi Bassi, al 22 per cento del Portogallo, al 26,1 per cento della Polonia e al 26,8 per cento della Spagna. La media dell’Eurozona, pari al 16,1 per cento, è principalmente abbassata dalla Germania, che con il 12,9 per cento presenta una percentuale inferiore di circa 2,5 punti rispetto a quella dell’Italia. La quota di dipendenti a termine di cittadinanza italiana sul rispettivo totale dei dipendenti italiani scende poi al 14,9 per cento, contro valori sensibilmente più alti in molti degli altri paesi sopra citati, tra cui Francia (16,2 per cento), Paesi Bassi (21,2 per cento), Spagna (25 per cento) e Polonia (26 per cento). In numeri assoluti, l’Italia mostra un numero di dipendenti a termine nei diversi settori di attività economica quasi sempre più basso, e talvolta di molto, rispetto agli altri maggiori Paesi dell’Unione europea, con le sole esclusioni dell’agricoltura e del turismo, settori nei quali il nostro paese, anche a causa della sua marcata specializzazione, con 275mila e 362mila dipendenti a termine è secondo dietro la Spagna che ne ha, rispettivamente, 303mila e 520mila.

 

Nel settore manifatturiero è invece prima per dipendenti a termine la Polonia (881mila) seguita da Germania (792mila), Francia (473mila), Spagna (461mila) e, più staccata, Italia (447mila), che pure è la seconda potenza manifatturiera del continente. Nelle costruzioni prima è la Spagna (338mila), seguita da Polonia (304 mila), Francia (265mila), Germania (241mila) e Italia (141mila).

 

Stessa cosa nel commercio: l’Italia (331mila dipendenti a termine) è sempre ultima tra le cinque grandi economie considerate, dopo Germania (677mila), Polonia (615mila), Spagna (515mila) e Francia (392 mila). Idem nei trasporti (prima la Germania con 211mila dipendenti a termine, quinta l’Italia con 125mila), nell’informazione e comunicazioni (prima la Germania con 111mila, quinta l’Italia con 40mila), nel settore bancario e assicurativo (prima la Germania con 84mila, quinta l’Italia con 17mila), nelle attività professionali e scientifiche (prima la Germania con 229mila, quinta l’Italia con 84mila), nelle attività amministrative e di servizi alle imprese (prima la Germania con 240mila, quinta l’Italia con 140mila).

  

Il copione si ripete tal quale nel settore pubblico. Nella Pa e nella Difesa i dipendenti a termine sono solo 69mila in Italia contro i 370mila della Francia, i 351mila della Germania, i 229mila della Spagna e i 133mila della Polonia. Stessa cosa nella sanità, dove prima è la Germania (con 762mila dipendenti a termine), seguita da Francia (599mila), Spagna (441mila) e Polonia (174mila). Mentre nell’educazione l’Italia è quarta (con 247mila dipendenti a termine) dopo Germania (525mila), Francia (372mila) e Spagna (303mila). Rispetto al 2008, cioè l’anno precedente l’inizio della lunga crisi, nel 2017 i dipendenti a termine tra i 15 e i 64 anni risultano aumentati in Italia di 434mila unità ma quasi i ¾ di questa crescita è interamente spiegata da soli tre settori, i quali con il loro dinamismo ci hanno portato fuori dalla crisi stessa: agricoltura (più 79mila), manifattura (più 70mila), alberghi e ristoranti (più 163mila).

   

I numeri dicono che non esiste in Italia una emergenza grave del lavoro a termine ma che è cresciuto in contemporanea con la ripresa dell’economia in modo fisiologico e in parallelo a quello a tempo indeterminato. Il decreto “dignità” rischia di frenare l’occupazione e la ripresa, un pessimo segnale agli investitori e anche alla Commissione europea.

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