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Cattivissimo Mef

Chi è Roberto Garofoli

Marianna Rizzini

Capo di gabinetto di Tria, il grand commis che conosce i segreti di cinque governi

Dice al telefono l’abitante di Molfetta: “Roberto Garofoli? C’è anche se non lo vedi, come le orme del dinosauro scoperte per caso qui vicino”. E a quel punto il forestiero che chiama dalla capitale non riesce a capire che cosa mai possa legare un mastodonte preistorico a Garofoli – già capo di gabinetto al ministero dell’Economia con Pier Carlo Padoan poi confermato da Giovanni Tria, già Segretario generale della presidenza del Consiglio con Enrico Letta, già giudice del Consiglio di Stato e grand commis tra i più stimati, pendolare tra Roma e Molfetta da tempo immemorabile. Poi si scopre che davvero, nel 2005, uno studente di paleontologia trovò per caso un’orma da Jurassic Park nei pressi della cava di San Leonardo, e allora il paragone pare più calzante, almeno dal punto di vista della sotterranea, ma innegabile (e irrinunciabile) presenza del capo di gabinetto nelle retrovie di ogni manovra economica, compresa la prima e già incandescente manovra del governo gialloverde: “Tutte le strade portano a Garofoli”, scherza senza troppo scherzare un collega. E dunque da Molfetta conviene partire, per cercare di capire come Garofoli sia diventato Garofoli, il magistrato con occhiali tondeggianti, volto impassibile (da giocatore di poker, verrebbe da dire, solo che Garofoli non gioca) e i capelli mai troppo corti. Un uomo di legge con un passato da pm e un’esperienza nei processi di mafia maturata sul campo. Un ex professore che gli studenti conoscono anche come coautore di compendi di Diritto penale e amministrativo: non per niente il capo di gabinetto del Mef ha anche in curriculum la codirezione della Treccani giuridica, coronamento di una delle sue tre carriere di giurista, magistrato e alto funzionario, tre aspetti della vita del medesimo laureato dell’Università di Bari che nel 1994 ha vinto il concorso in magistratura e da lì non si è più fermato, pur tornando a Molfetta da moglie e figli ogni fine settimana, cascasse il mondo, qualsiasi sia la situazione lasciata in ufficio: leggenda vuole, infatti, che Garofoli non alzi la testa dalle carte neanche in viaggio, e che anzi consideri il treno una specie di unità distaccata del Mef, motivo per cui non prende mai l’aereo, mezzo di locomozione che non permette un’altrettanto certa ottimizzazione dei tempi.


Come magistrato e uomo di legge, prima ancora che come grand commis, Garofoli è di tanto in tanto invitato a convegni e presentazioni di libri, dove capita che parli di Europa e conti pubblici, ma sempre con la tipica curvatura giuridica che rende impossibile qualsiasi sospetto di partigianeria e qualsiasi manovra di avvicinamento dei retroscenisti (dice un veterano di Montecitorio: “Garofoli non è il classico uomo di ministero cui chiedere ufficiosamente lumi sulla legge di Bilancio”). Ed è nel mondo ovattato della convegnistica, ma anche in quello meno ovattato dei bilanci regionali, che il Garofoli più autentico si esprime, come testimoniano i rari file audio e video da Radio Radicale (uno su tutti, quello in cui Garofoli, nel marzo del 2017, alla presenza del governatore del Lazio Nicola Zingaretti, parla di collaborazione governo-Regione sul piano di rientro sanitario). “Tria ha fatto bene a tenerselo”, è l’universale commento presso aule parlamentari e corridoi ministeriali, dove si ricorda che l’alto funzionario, “per rigore, accortezza e conoscenza della materia” è stimatissimo dal giudice emerito della Corte costituzionale Sabino Cassese, e dove c’è chi sottolinea “la versatilità mai improvvisata” di Garofoli, uomo “dalla memoria fuori dal comune”, racconta un osservatore, “che guarda molto poco gli appunti durante le riunioni” e non si presenta mai in nessun luogo senza aver studiato e ristudiato i dossier propri e altrui, e senza dimenticare di fare domande di verifica all’interlocutore, come se non avesse mai perso l’attitudine e l’abitudine del magistrato.

 

Non per questo appare monoliticamente secchione: da un lato è algido e non mondano, esigente e poco tenero di fronte alle sciatterie; dall’altro è cordiale (insiste perché gli si dia del tu, prende senza problemi un gelato o una birra con i colleghi, anche se si capisce la sua preferenza per le uscite centellinate con amici fuori dal giro). Può lasciar trasparire il velo di malinconia del padre pendolare a cui pare di avere sempre troppo poco tempo per stare con i figli, ma può non mascherare il carattere tutt’altro che remissivo: se ti deve dire che qualcosa non va Garofoli te lo dice, e te lo dice senza tanti giri di parole, ma l’atteggiamento ipercritico è riservato anche a se stesso, dicono all’unanimità quelli che l’hanno visto all’opera. Ghiaccio e fuoco: un po’ Borg, un po’ McEnroe, non a caso mito doppio di Garofoli, spettatore di partite di tennis più che giocatore di tennis (quest’anno, dopo anni, ha fatto una fugace puntata agli Internazionali di Roma), ma ancora legato cuore e memoria ai due mattatori per lui non eguagliati da nessuno, ferma restando l’ammirazione per Roger Federer, che in qualche match glieli ha ricordati. Per il resto, lo sport non è uno dei pallini del capo di gabinetto di Tria: non lo pratica mai e lo guarda poco (è uno juventino tiepido), anche se si sposta sempre a piedi (in questo – forse solo in questo? – è in linea con la fissazione anti automobilistica di alcuni ministri e plenipotenziari gialloverdi).

A fianco del grand commis, spunta però sempre il Garofoli curatore di volumi giuridici (titolo di quello curato con Giuliano Amato: “I tre assi: l’amministrazione tra democratizzazione, efficientismo, responsabilità”) e un Garofoli esperto di lotta alla corruzione, argomento oggetto di un dibattito organizzato dalla Fondazione Italianieuropei: nel 2012 il magistrato ha partecipato a una tavola rotonda con Massimo D’Alema, pugliese come lui (il trait d’union, raccontano in ambienti dalemiani, era Andrea Pèruzy, già segretario generale della fondazione, ex membro del cda Acea, poi designato in epoca renziana amministratore delegato della società Acquirente unico). E però il particolare non illumina il tutto: sempre sul tema del contrasto alle mafie, nel 2014 Garofoli compare anche tra i nomi di un seminario Arel (think tank di area lettiana), accanto a Raffaele Cantone, Nicola Gratteri e Giovanni Maria Flick. E proprio per via dei buoni rapporti con gli ambienti lettiani, dalemiani e montiani (è stato capo dell’Ufficio legislativo della Farnesina quando D’Alema era ministro degli Esteri e capo di gabinetto alla Pubblica Amministrazione sotto il governo Monti), ci fu chi, ai tempi del governo Renzi, ipotizzò un’indiretta azione tecnica di resistenza al premier rottamatore. E però Garofoli era sempre lo stesso: meticoloso nel controllo, millimetrico nell’organizzazione, preveggente rispetto alle possibili implicazioni problematiche di un provvedimento, anche a costo di rimandare cose che un premier (forse qualsiasi premier) preferirebbe non rimandare. Quando infatti si nomina Garofoli a un addetto ai lavori, l’addetto ai lavori dice in media cose come: “Garofoli protegge i ministri dalle conseguenze non ancora visibili dei loro atti” o “Garofoli non predilige la velocità tanto per essere veloci” o “Garofoli non tollera l’idea di non essere preparato. Men che meno tollera il bluff altrui: se ne accorge immediatamente”. In generale, le poche volte in cui il capo di gabinetto parla pubblicamente lo fa per mettere in guardia di fronte a un rischio, come nella primavera del 2017, a proposito di bail-in: “Con l’introduzione del bail-in e il rinnovato interesse per la tutela del risparmi”, diceva, “diventa ancora più cruciale il ruolo delle autorità di regolazione finanziaria: devono spingere ulteriormente sui controlli, come del resto anche il governo, rendendoli sempre più efficaci e puntuali, e inoltre valorizzare l’educazione finanziaria a ogni livello, che è diventata assolutamente necessaria e invece in Italia presenta preoccupanti gap rispetto all’Europa” (come dire: con la difesa del risparmio non si scherza). Ma succede pure che Garofoli, parlando in pubblico su argomenti non economici, lasci emergere l’ inconfondibile lessico da tribunale: intervistato nel 2012 a Skytg24 sulla corruzione (domanda: che cosa ne pensa del persistente dilagare della corruzione nonostante siano passati vent’anni da Tangentopoli?), Garofoli parlava di “reato sinallagmatico”, con quelle due persone – corrotto e corruttore – che si tenevano insieme così indissolubilmente da rendere molto difficile provare quel che si sospettava. “Quando lo si interpella nella veste di giudice, Garofoli addolcisce inconsapevolmente il tono della voce”, dice un conoscente, convinto che la stessa piccola mutazione avvenga quando il capo di gabinetto del Mef fa riferimento alla sua Puglia. “Uomo del Sud”, dicono infatti di lui. Uomo del Sud per nostalgia e per silenzioso scambio con il luogo: il magistrato che viene salutato per strada con rispetto, restituisce il rispetto con il contegno, a costo di sembrare rigido. E le voci sparse di chi lo frequenta confermano il quadro: non ha il mito delle grandi capitali né delle Americhe, Garofoli. Apprezza Roma, pur standoci il meno possibile, ma vede nelle feste e cene l’anticamera di una tessitura-reti non sempre virtuosa. Maniaco della meritocrazia, fatica ad accettare le imperfezioni nel lavoro dei collaboratori (pare ultimamente si sia addolcito – o forse soltanto adattato al contesto). Sembra lontano da ogni egoriferitismo, ma anche lontano da ogni insicurezza. E’ potente, ma non si comporta come uno che insegue il potere per il potere. Ogni partita al Mef passa e ripassa per la sua scrivania, e quasi quasi è come nei palleggi delle sfide Borg-McEnroe che Garofoli non ha mai dimenticato: una volta vince il ghiaccio, una volta il fuoco, ma alla fine sono sempre loro due contro il resto del mondo.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.