Il trucco del reddito di cittadinanza che si finanzia da solo
Tra l’incudine del Fiscal compact e il martello della realtà, storia di una misura che sfida la legge di gravità
L’idea di un reddito di base universale viene discussa da tempo tra le misure di economia cosiddetta utopistica, che immagina una società senza lavoro, vuoi perché l’uomo si riappropria del proprio tempo vitale, vuoi perché il lavoro viene sempre più distrutto dalla robotizzazione (ammesso che ciò sia vero). Solo in Italia, però, la proposta, declinata in modo ambiguo come “reddito di cittadinanza” (RdC), di utopistico ha molto di più: nelle intenzioni dei proponenti, infatti, il reddito di cittadinanza si finanzia da solo. La proposta rientra dunque a pieno titolo in quell’insieme ben nutrito di recenti iniziative del cosiddetto emisfero “sovranista” che sfidano la legge di gravità. Ad esempio, la flat tax che si finanzierebbe da sola attraverso la conseguente espansione dell’attività economica. Oppure i minibot, che pretenderebbero di aumentare il reddito e il potere di acquisto reale degli individui, quando invece sono meri strumenti di ipnosi monetaria. Il caso del RdC che si finanzia da solo, illustrato qualche settimana fa dal vicepremier Luigi Di Maio in commissione Bilancio della Camera, stupisce però in modo particolare perché la proposta sulle modalità di finanziamento viene dal mondo accademico.
Quanto più il RdC producesse il vero obiettivo per cui è stato pensato, cioè un aumento dei consumi e del pil, tanto meno sarebbe compatibile con il mantenimento dei vincoli europei di bilancio. E’ questo il vero paradosso, il cortocircuito logico, del provvedimento proposto da Luigi Di Maio
Erogare il reddito di cittadinanza corrisponde a pagare lavoratori attualmente inattivi (perché scoraggiati e probabilmente obsoleti) affinché si iscrivano ai cosiddetti Centri per l’impiego (CpI). Iscritti ai CpI con i capelli biondi, questi lavoratori ne uscirebbero con i capelli castani. Cioè da scoraggiati verrebbero classificati come “disoccupati in cerca di impiego”. Questa riclassificazione consentirebbe di rivedere al rialzo il calcolo della cosiddetta forza lavoro potenziale, e quindi del pil potenziale, cioè la capacità produttiva dell’intera economia. In sintesi: una spesa di 19 miliardi per un’operazione meramente contabile.
C’è innanzitutto da chiedersi quale sia il senso economico di una tale misura. Il RdC dovrebbe richiamare lavoratori tipicamente scoraggiati perché da molto tempo ai margini del mercato del lavoro. Lavoratori quindi dequalificati, difficili da inserire nel sistema produttivo e che richiederebbero quantomeno una significativa fase di riqualificazione. Definire questo passaggio un aumento della forza lavoro potenziale dell’economia lascia stupiti. La forza lavoro potenziale risponde all’evoluzione di lungo periodo sia dell’efficienza tecnologica che del livello di istruzione del fattore lavoro. Non si altera certo da un giorno all’altro con l’iscrizione ai CpI di masse di lavoratori scoraggiati. Inoltre, i lavoratori inattivi sarebbero indotti ad attivarsi nella ricerca di un lavoro in una fase in cui strutturalmente la nostra economia produce posti di lavoro in modo asfittico, e spesso di produttività molto bassa. E’ altamente plausibile che una larga percentuale di questi lavoratori (proprio per la loro obsolescenza) non riuscirebbe a trovare un “match” con il mercato del lavoro entro due anni, essendo quindi costretta a rientrare nel bacino degli inattivi. Infine, quanta parte dei cosiddetti scoraggiati è veramente inattiva? E’ probabile, specialmente in Italia e nel Mezzogiorno, che una quota non piccola di questo bacino di lavoratori operi in realtà nel sommerso. Iscriversi a un CpI è meno faticoso di scavare buche nel terreno. Il RdC spingerebbe al ribasso il salario di riserva a cui ciascun lavoratore sarebbe disposto a lavorare nel sommerso, incentivando così la domanda di lavoro in nero. Ciò deprimerebbe, invece di espandere, la forza lavoro potenziale.
Ma anche l’automatismo “maggiore forza lavoro potenziale uguale maggiore pil potenziale” desta molte perplessità. Il pil potenziale misura la capacità strutturale di produrre reddito di un’economia. Il fattore lavoro nel suo complesso ha un certo grado di complementarietà con il fattore capitale, per un dato livello di produttività aggregata dei fattori. Semplicemente aggiungere “forza lavoro potenziale” non incrementa la “capacità produttiva potenziale” dell’economia. Prima di produrre reddito, il lavoro va combinato con il capitale. Quest’ultimo passaggio è costoso, lento, complesso, e non meramente contabile. Se si convincono, grazie al RdC, ex infermieri maturi disoccupati di lungo corso ad accettare un lavoro in un’azienda agricola, la loro inabilità a far funzionare macchinari tecnologicamente avanzati per l’irrigazione determinerà una minore, e non maggiore, produzione per unità di lavoro impiegato.
Supponiamo tuttavia che il trucco contabile permetta effettivamente di incrementare, con un tratto di penna, il pil potenziale dell’economia (un’ipotesi eroica). Secondo i redattori della proposta, da questa magia deriverebbe un ulteriore miracolo: il RdC potrebbe essere finanziato senza ulteriore deficit.
Uno dei pilastri del Fiscal compact richiede ai paesi ad alto debito (come l’Italia) di mantenere il rapporto “deficit strutturale -pil” costante. Il deficit strutturale è la differenza tra deficit corrente (spesa meno tasse) e deficit ciclico. A sua volta il deficit ciclico è calcolato, secondo i parametri della Commissione, in proporzione al cosiddetto “output gap”, cioè la differenza tra pil potenziale e pil effettivo. L’idea di base è che se il pil effettivo, durante una recessione, si allontana temporaneamente dal pil potenziale, il deficit ciclico possa aumentare, per dare fiato all’economia. Questo è un elemento di flessibilità del Fiscal compact tipicamente non apprezzato a sufficienza. Maggiore è il pil potenziale (rispetto a quello effettivo, quindi maggiore l’output gap), maggiore è il deficit ciclico che un paese può concedersi rimanendo fedele alle regole europee.
La magia starebbe dunque nel fatto che, a fronte di maggiore spesa pubblica per 19 miliardi, il presunto aumento del pil potenziale consentirebbe di mantenere il deficit strutturale costante. Un colpo al cerchio (maggiore spesa) e uno alla botte (maggiore pil potenziale), e il gioco è fatto. Nessuna penalità dalla Commissione dunque. Nessuna violazione del Fiscal compact, ma 19 miliardi di spesa pubblica in più “in circolo nell’economia”. Quindi maggiori consumi, e maggior pil effettivo (non potenziale), rimanendo immacolati agli occhi dell’Europa.
Qualcosa però non quadra. Se vogliamo che l’incremento di spesa pubblica (cioè il RdC) si traduca anche in maggiori consumi e pil effettivo, dovremo anche accettare che la variazione dell’output gap, cioè della differenza tra pil potenziale ed effettivo, sia modesta, o nulla. Banalmente, se al magico incremento del pil potenziale segue anche un incremento del pil effettivo, la loro differenza, cioè l’output gap, tende a rimanere invariata. Ma se l’output gap non varia, non varia neanche il deficit ciclico. E quindi si annullano gli spazi di flessibilità fiscale. Si noti quindi il paradosso. Quanto più il RdC producesse il vero obiettivo per cui è stato pensato, cioè un aumento dei consumi e del pil, tanto meno sarebbe compatibile con il mantenimento dei vincoli europei di bilancio. Quindi delle due l’una. O si dice onestamente al Paese che il RdC è una misura che può essere solo finanziata in deficit violando uno degli assunti del Fiscal compact; oppure si dice che si vorrà rimanere in linea con il Fiscal compact, ma che la misura stessa produrrà solo effetti minimi (o nulli) su occupazione, consumi e reddito. Tertium non datur, anche nel mondo dell’economia sovranista senza forza di gravità.
Tommaso Monacelli, economista, Università Bocconi