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Meno Italia in Bce

Marco Cecchini

Nell’azionariato dell’Eurotower l’Italia conterà meno perché cresce poco e dovrà piazzare più debito

Roma. Ci sono tre fattori di rischio che potrebbero trasformare lo scenariobce 2019 dell’Italia in un mezzo incubo finanziario. Due sono ampiamente conosciuti. Il primo riguarda la fine ormai imminente del Quantitative easing, ovvero il programma di acquisto di titoli pubblici dei paesi dell’Eurozona da parte della Bce, una fine che si inserisce nel quadro di strisciante rialzo dei tassi d’interesse internazionali avviato in particolare dalla normalizzazione della politica monetaria americana e rischia di aggravarlo. Il secondo riguarda il conflitto tra i vincoli finanziari europei e le promesse impossibili della maggioranza gialloverde che promette di far deragliare la prossima legge di Stabilità, vero punto di svolta e test di credibilità della maggioranza. Sono tutti elementi che giocano fortemente contro un paese ad alto debito come l’Italia. Oltretutto, c’è grande attesa per la revisione del rating sul debito italiano da parte delle agenzie Fitch (a fine mese) e Moody’s (primi di settembre) e per tutto questo i mercati sono in allerta. Ma c’è un terzo fattore di rischio meno noto che potrebbe aprire un buco di una manciata di miliardi nel rifinanziamento del debito pubblico italiano il prossimo anno, complicando ulteriormente un quadro già parecchio teso. Dal primo gennaio scatta infatti, la revisione quinquennale delle quote di capitale (il così detto key capital) delle Banche centrali dell’euro nella Bce. Il key capital non fotografa solo il peso di un paese partecipante nel club, ma ad esso è correlato l’ammontare degli interventi che Francoforte può effettuare sui mercati finanziari dei singoli partecipanti. L’ammontare degli interventi consentiti si muove al variare del peso di ciascuno.

 

Le quote detenute dalle singole Banche centrali vengono calcolate sulla base del numero degli abitanti e del prodotto interno lordo in rapporto ai valori corrispondenti per i 18 membri dell’Eurozona. Secondo il quotidiano tedesco Welt, dato che sia la popolazione che il pil della Germania sono cresciuti nel 2017 sopra la media, la quota della Bundesbank salirà di 1,1 punti dal 25,7 al 26,8 per cento. Viceversa, quella della Banca d’Italia, per i motivi opposti, scenderà di un punto dal 17,5 al 16,5 per cento. Per la Spagna vale un discorso analogo, solo che la flessione sarà inferiore, dal 12,6 a 12,1 per cento. Il risultato della revisione sarà – salvo ripensamenti – che un certo quantitativo di titoli di stato italiani acquistati dalla Bce nell’ambito del Quantitative easing non potranno essere rinnovati dall’istituto di Francoforte e il Tesoro dovrà trovare nuovi acquirenti per quei titoli. L’interrogativo è: quali? Le banche e le assicurazioni nazionali sono già pieni di debito italiano e hanno iniziato una politica di alleggerimento anche su pressione della stessa Bce. Le famiglie hanno da tempo ridotto la loro quota a un magro 6 per cento. Restano le banche d’affari estere, le quali pretenderanno rendimenti maggiori per investire in un paese divenuto più a rischio di prima. A seguito del Qe a fine 2017 la Bce deteneva 310 miliardi di titoli italiani e a fine giugno la cifra era salita a 348,6 miliardi, divenendo il primo creditore singolo del nostro paese. Una sua minore partecipazione al rinnovo dei titoli in scadenza non può dunque non avere ripercussioni. Per avere un ordine di grandezza di riferimento basta pensare che l’uno per cento dello stock di titoli dei paesi euro detenuti dalla Bce a seguito del Qe cifra circa 20 miliardi. Il clima di fiducia degli investitori internazionali che pure negli ultimi anni e mesi, soprattutto, si sono allontanati dai Btp è dunque cruciale per l’Italia. Si tocca qui con mano il paradosso del sovranismo gialloverde: più il governo si muove nella direzione di realizzare le sue promesse, più esso diventa dipendente dei mercati finanziari e delle (odiate) banche d’affari estere.