L'emergenza sulla distribuzione della ricchezza è una fake news
Per smontare le bufale bisogna parlare di redditi. La diseguaglianza italiana non è dovuta alle tecnologie o alla globalizzazione, ma alla rigidità di politiche assistenzialiste e meramente redistributive
Roma. La globalizzazione ha fallito e le crescenti disuguaglianze ne sono la prova. Su questa frase potrebbe trovarsi d’accordo tutta la politica italiana, quasi senza distinguo. L’ultimo pretesto per scatenare la canea è stato il rapporto Bcg secondo cui il numero di milionari (in dollari) italiani è aumentato, tra il 2016 e il 2017, del 19 per cento: peccato che, come ha mostrato Luciano Capone sul Foglio, questo boom di riccastri sia quasi solo un’illusione ottica dovuta all’apprezzamento dell'euro sulla valuta americana. Infatti, come vedremo tra poco, le cose durante la recessione sono andate molto diversamente.
Quando un’opinione raggiunge un simile livello di condivisione, delle due l’una: o si tratta di una verità di per sé evidente, oppure è una bufala fatta e finita. Spoiler: è la più fake delle fake news. Ed è un grosso problema: una cattiva comprensione del fenomeno, e la confusione tra cause e conseguenze, può portare a policy che, anziché risolverlo, finiranno per aggravarlo.
Andiamo con ordine. Molti economisti ritengono che disparità sociali eccessive possano rappresentare un freno alla crescita economica. Tuttavia la relazione tra crescita e disuguaglianza è assai complessa. Da un lato, un aumento della disuguaglianza può avere un impatto negativo sullo sviluppo economico, marginalizzando una parte della popolazione e limitandone la partecipazione al mercato del lavoro. Al tempo stesso, la crescita – specie in un contesto di cambio tecnologico che premia in modo sproporzionato le competenze professionali – può acuire le divaricazioni sociali, anche se la maggior domanda di lavoro tende a ricomporle. Inoltre, molto dipende dalle origini della disuguaglianza: se essa nasce dal merito (e quindi riflette la produttività) può avere effetti benefici, mentre se deriva dallo sfruttamento di posizioni di rendita è nociva per lo sviluppo. Infine, ci sono molti modi per rilevare statisticamente la disuguaglianza: quale sia la misura più adeguata dipende largamente dal contesto. Per esempio, a seconda dei casi può essere necessario focalizzare l’attenzione sulla disuguaglianza in cima, in mezzo o in fondo alla distribuzione.
Non è vero che, con la crisi, i ricchi sono diventati più ricchi. La disparità dei redditi nel nostro paese ha principalmente due cause, nessuna delle quali ha a che vedere con le difficoltà economiche degli anni passati. La prima: gli squilibri territoriali. La seconda: la debole mobilità sociale
Con questa premessa teoriche, possiamo guardare ai dati relativi all’Italia. L’indice di Gini – una comune misura di disuguaglianza pari a zero in caso di perfetta uguaglianza e 100 all’estremo opposto – aveva nel 2016 un valore pari a 33,1. Tale dato va visto sia nella sua evoluzione nel tempo, sia nel raffronto con gli altri paesi. Gini è leggermente cresciuto rispetto al periodo pre-crisi (nel 2007 valeva 32,0), perlopiù a causa della maggiore disoccupazione, ma si colloca oggi a livelli già raggiunti nel passato, per esempio nel 2004 (32,9) e nel 1995 (33). Inoltre, la nostra situazione non è anomala rispetto agli altri Stati membri dell’Unione europea: siamo un poco sopra la media (30,8 per l’Ue28, 30,7 per l’eurozona) e a paesi come la Germania (29,5) e la Francia (29,3), ma sotto la Spagna (34,5) e il Portogallo (33,9).
Non solo: contrariamente a una narrazione tanto diffusa quanto infondata, non è vero che, con la crisi, i ricchi sono diventati più ricchi. Anzi, come hanno scritto Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli, durante l’ultima recessione “l’intera distribuzione dei redditi si è spostata verso il basso, ma le variazioni della distribuzione sono state pressoché insignificanti. A ulteriore conferma di questa analisi, si osserva che è interamente attribuibile all’immigrazione l’aumento, pur modesto, che si osserva nell’incidenza della povertà relativa” (Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2018). I migranti hanno ovviamente redditi molto bassi (o nulli), almeno al momento dell’arrivo, e dunque tendono a ingrassare la coda sinistra della distribuzione dei redditi. Tuttavia, nel lungo termine, la loro presenza aumenta lo stock di capitale umano nel paese, e contribuisce ad aumentare l’efficienza dell’intera economia. Proseguono Codogno e Galli: “l’incidenza della povertà relativa dei nati in Italia ha oscillato fra l’11 e il 13 per cento dall’inizio del secolo, senza alcun particolare trend. L’incidenza della povertà totale è invece aumentata, dal 12,8 per cento del 2008 al 14,2 nel 2014, perché è aumentata la quota di immigrati, che hanno tassi di povertà attorno al 33-34 per cento, sulla popolazione residente”.
La prima lezione che si può trarre dai dati è dunque che la disuguaglianza dopo le tasse in Italia è relativamente alta ma non è cresciuta in modo drammatico negli ultimi anni. Da ciò derivano due conclusioni e una domanda: i) non siamo in presenza di una emergenza, ma di un problema che ha origini nel lontano passato; ii) il nostro sistema redistributivo è estremamente inefficiente, a dispetto della sbandierata progressività; iii) da cosa nasce, allora, la disuguaglianza? E cosa possiamo fare in merito? E’ importante andare alle radici del fenomeno, perché in caso contrario vi è il concreto rischio come minimo di sperperare risorse, sottraendole a impieghi più produttivi; o, addirittura, di alimentare anziché contrastare il problema.
La disparità dei redditi nel nostro paese ha principalmente due cause, nessuna delle quali ha a che vedere con la crisi economica né tanto meno col liberismo selvaggio. C’entra in qualche misura la globalizzazione, ma nel senso esattamente opposto a quello per cui essa viene sovente invocata: il “peccato originale” della disuguaglianza italiana non è la concorrenza sleale degli altri paesi, ma la parziale auto-esclusione del nostro dai mercati mondiali e dai relativi cicli di innovazione.
La prima determinante degli sbilanciamenti nella distribuzione dei redditi sta negli squilibri territoriali: la distanza tra Nord e Sud, nonostante i fiumi di denaro che si sono riversati nel Mezzogiorno nei decenni passati e che ormai si sono molto ristretti, è rimasta enorme. Diverse indagini empiriche sugli incentivi allo sviluppo del Sud, inclusi i fondi strutturali europei, ne hanno mostrato la sostanziale inefficacia (si vedano, per esempio, i lavori di Guido De Blasio e coautori). Anzi, c’è una robusta evidenza sul nesso tra spesa pubblica ed economia criminale. Proprio il contrasto della criminalità organizzata rappresenta un elemento essenziale per una strategia per il Sud e, attraverso di esso, per la riduzione delle disparità col Nord. Ma non basta: sappiamo dalla letteratura che il vero discrimine di lungo termine per la crescita sta nella qualità delle istituzioni e nella disponibilità di capitale umano. Le regioni meridionali sono in sofferenza sotto entrambi questi aspetti: da un lato (come mostrano i test Pisa e Invalsi) le scuole e le università sono generalmente di livello molto inferiore rispetto al Settentrione (con le dovute eccezioni); dall’altro abbiamo ampia documentazione sull’inefficienza del settore pubblico. La risposta a entrambe le questioni non sta né nel deficit spending né nella redistribuzione a pioggia, ma nella meritocrazia e nelle riforme istituzionali. In particolare, il Sud soffre in modo acuto di una malattia che riguarda l’intera struttura produttiva italiana: le imprese, specialmente nel settore dei servizi, sono troppo piccole e investono troppo poco. A tale mancanza si è cercato di sopperire attraverso politiche di sussidio più o meno sofisticate: ma difficilmente esse possono controbilanciare i colli di bottiglia di natura regolatoria che ne impediscono la crescita. Il risultato è che i finanziamenti o sono andati a vantaggio di realtà che non ne avevano bisogno (perché già si trovavano su una traiettoria di crescita dimensionale), oppure hanno spinto le imprese a impegnare risorse nella caccia al sussidio invece che nel miglioramento dei prodotti, dell’organizzazione o delle strategie commerciali.
La seconda radice della disuguaglianza va cercata nella debole mobilità sociale. Un recente rapporto Ocse ha dimostrato che nel nostro paese il figlio dell’operaio ha ancora scarse speranze di diventare dottore: per esempio, il ritorno sugli investimenti in istruzione è nettamente inferiore rispetto alle altre nazioni industrializzate, dove i laureati guadagnano in media il 60 per cento in più dei non laureati, contro il nostro 40 per cento. Il 62 per cento di coloro che si trovano nel quintile più povero della popolazione vi rimangono per almeno quattro anni, 5,5 punti sopra la media Ocse. Ancora una volta, questo fenomeno nasce nel sistema educativo e dai contesti socioeconomici sottostanti: Marco Leonardi e Marco Paccagnella hanno trovato che il 73 per cento degli studenti con almeno un genitore laureato frequenta un liceo, contro il 43 per cento dei figli di genitori non laureati. Ma, mentre l’87 per cento dei liceali aspira alla laurea, tale percentuale crolla al 31 per cento negli istituti tecnici e professionali. Per il resto, la bassa mobilità sociale dipende dagli enormi vincoli che impediscono la concorrenza. In numerosi ambiti, dalle professioni intellettuali alle industrie ancora dominate da ex monopolisti pubblici, l’efficienza non è necessariamente una ricetta per il successo: regolamentazioni anacronistiche impediscono ai migliori di emergere, i peggiori non escono dal mercato perché la politica vede le crisi industriali come un’eventualità da esorcizzare anziché un passaggio fisiologico per la riallocazione dei fattori, e le connessioni politiche contano più del merito. Ufuk Akgit, Salomé Baslandze e Francesca Lotti hanno dimostrato le imprese più “ammanicate” tendono ad avere maggiori speranze di sopravvivenza, ma sono meno propense a innovare e sono relativamente meno produttive. E’ così che si spiegano la diffusa presenza di imprese inefficienti nella nostra economia e la forte isteresi che caratterizza i cambiamenti nella specializzazione produttiva e nei modelli di business, specie nei servizi (si pensi ai ritardi con cui arrivano in Italia le evoluzioni nella distribuzione commerciale o nelle professioni legali). Le barriere all’innovazione e la resistenza contro le trasformazioni strutturali che hanno investito le economie occidentali fin dagli anni Settanta spiegano non solo la relativamente alta disuguaglianza, ma anche la bassa crescita e la bassa produttività.
Infine, l’azione dello Stato ostacola lo sviluppo determinando una cattiva allocazione dei fattori (capitale e lavoro), e appare totalmente sghemba rispetto agli obiettivi di redistribuzione. L’Italia ha una delle distribuzioni dei redditi meno diseguali prima delle tasse (indice, ancora una volta, di scarso dinamismo e modesti ritorni sul capitale umano), ma sale poi nella classifica dopo le tasse, nonostante una pressione fiscale tra le più alte in Europa. Più che altrove la redistribuzione è affidata alla spesa pensionistica: col risultato di moderare le disuguaglianze orizzontali tra i cittadini, ma esaltare quelle intergenerazionali.
Il tema delle disuguaglianze, insomma, va preso sul serio, ma proprio per questo va anzitutto compreso. In Italia non c’è una emergenza, ma una rigidità nella distribuzione dei redditi che nasce molti decenni fa. Essa è destinata a sopravvivere – anzi, a essere amplificata – da politiche meramente redistributive (come il reddito di cittadinanza) e dalle varie forme di incentivazione alle imprese (che distorcono il mercato o ne limitano le prospettive di crescita dimensionale). La disuguaglianza italiana non è dovuta alla tecnologia o alla globalizzazione, ma alla nostra impermeabilità al cambiamento, che ingessa il paese dal punto di vista economico e sociale. La distanza tra il Nord e il Sud contribuisce a spiegare molto del fenomeno, e a sua volta non può essere affrontata meramente trasferendo risorse finanziarie dalle regioni più ricche a quelle più povere. Occorre piuttosto un lavoro capillare sulla qualità delle istituzioni, a partire dalla scuola. E serve, più in generale, una maggiore attenzione ai temi della produttività, del dinamismo e della mobilità sociale. L’idea che alle legittime paure dei cittadini si debba rispondere isolandoli ulteriormente dal resto del mondo è autolesionista perché non rimuove le cause, ma esacerba le conseguenze.
L’Italia si è già trovata a sbattere la faccia contro la realtà, e ripetutamente, almeno a partire dai primi anni Novanta, quando ci è stato recapitato il conto delle scelte pregresse in materia di spesa pubblica, regolamentazione e organizzazione dello Stato. Forse è il momento di curare il male, anziché negarne i sintomi.