Il deserto di Liwa, a pochi chilometri da Abu Dhabi, è uno snodo cruciale della Nuova Via della seta cinese (foto Xinhua)

Aridateci Marco Polo

Stefano Cingolani

L’Eurasia si compatta e si risveglia. Ma per l’Italia senza infrastrutture una via della seta non ci sarà più

Il mondo di Marco Polo è tornato, ma questa volta non c’è Venezia sposa dei mari, non c’è Genova signora dei mercati, non c’è nemmeno il papa re a fare da baluardo. L’Europa è scossa e divisa, l’Occidente si sfarina e l’Italia diventa un maso chiuso. Non ci credete? Seguiteci in questo viaggio tra l’Adriatico e l’Oceano indiano, tra il deserto del Gobi e le fertili del placido Don, tra il Golfo Persico e il Levante insanguinato. Ci fanno da guida due libri, il primo di uno storico di Oxford (Peter Frankopan, “Le nuove vie della seta”, Mondadori) l’altro di un politologo americano di fama mondiale (Robert Kaplan, “Marco Polo’s World”, Random House). Un nuovo grande gioco è in corso e coinvolge l’Iran, l’Arabia saudita, la Turchia, la Cina, la Russia e l’India, i paesi dell’Asia centrale e quelli del Nord Africa. Guai a chi ne resta fuori. Nel nuovo mondo di Marco Polo cambiano le mappe che abbiamo studiato e il centro si sposta: non il Mediterraneo, non l’Atlantico, ma l’Oceano Indiano scrive Kaplan, da dove si dirama un reticolo che porta al centro dell’Asia, all’Africa, fino all’Europa. Anche se portano tutte negli stessi luoghi, le vie della seta sono molte, oggi come in passato, sostiene Frankopan. Per capirlo bisogna risalire indietro nel tempo, a prima della Grecia classica e di Alessandro Magno. Ma è la fine dell’Impero romano d’occidente e il contrarsi di Bisanzio ad aprire scenari che tornano quanto mai attuali. Gli arabi conquistano mezza Europa, i persiani si fanno musulmani sciiti e bilanciano l’espansione sunnita, mentre con gli ottomani in Turchia si afferma una nuova grande potenza islamica; nelle fertili pianure europee irrompono i popoli delle steppe, fino a Gengis Kahn e all’Orda d’oro, contro la quale comincia a definirsi l’identità della Russia autocratica; mentre la Cina degli imperatori mongoli mette fine alle guerre intestine e s’afferma come il paese più ricco e potente, quello dove arriva la famiglia Polo.

 

Un nuovo grande gioco è in corso e coinvolge l’Iran, l’Arabia Saudita, la Turchia, la Cina, la Russia e l’India, l’Asia e il nord Africa

Prendiamo le rotte seguite dai mercanti veneziani. Tornano nomi che ci sono familiari. Partito da Venezia nel 1271, con il padre Niccolò e lo zio Matteo, che si erano già recati in Cina, Marco passa per la Palestina, la Turchia, il nord dell’Iraq, le terre dei curdi e degli azeri, e poi l’Iran, l’Afghanistan, il Xinjiang turcomanno e musulmano, fino a Khanbalik che Marco Polo chiama Cambuluc (l’odierna Pechino) eletta capitale da Kublai Kahn fondatore della dinastia Yuan. Ma anche il viaggio di ritorno a Venezia ci conduce, come chiudendo un ideale ellisse, attraverso l’Indocina, la Malesia, l’India, l’Oman, lo Yemen e l’Africa orientale. Sono i percorsi oggi attraversati dalle immense navi cargo che sbarcano a Rotterdam, sono i cieli solcati dagli aerei che atterrano a Parigi o a Francoforte, sono le montagne e le pianure attraversate dai treni che si fermano a Duisburg, dove ogni settimana arrivano almeno 25 convogli merci dalla Cina.

 

“One belt one road”, il grande progetto lanciato da Xi Jinping nel 2013, in realtà non ha una sola cintura né una sola strada, è un reticolo complesso e contraddittorio, come scrivono sia Frankopan sia Kaplan, un mondo pieno di conflitti antichi e irrisolti e nuovi e forse irrisolvibili. Molti dubbi vengono sollevati sulla efficacia e realizzabilità di questa vasta strategia cinese (lo ha fatto pochi giorni fa il Financial Times). Troppe spese e troppi investimenti tutti a debito, troppe incertezze sulla capacità dei singoli paesi di far funzionare sistemi complessi, troppi ponti lasciati a metà, ma anche tante reazioni socio-politiche alla espansione cinese. Ciò vale per il sud-est asiatico che da sempre ha vissuto male l’egemonia dell’Impero di mezzo, ma anche per l’Africa dove la corsa alle immense riserve minerarie si scontra con la resistenza di regimi corrotti e inefficienti. Reazioni crescenti sono evidenti anche in Europa e in Italia dove si è formato un partito anticinese che arriva a chiedere un cordone sanitario verso Pechino, fatto di dazi, protezioni e persino sanzioni.

 

La polemica italiana sulle infrastrutture che riempie i giornali è provinciale e inadeguata. E una grande opportunità mancata

Mettiamo anche le mani avanti, tuttavia una cosa è evidente, secondo Kaplan: “L’Europa sparisce e l’Eurasia si compatta, non nel senso che diviene unita e stabile come è stata l’Europa durante e dopo la Guerra fredda, ma l’interazione di globalizzazione, tecnologie e geopolitica, con ciascuna che rafforza le altre, spinge il subcontinente euroasiatico a diventare, analiticamente, una unità fluida e comprensibile”. La stessa idea di nazione perde sostanza mentre si riafferma la l’impero come forma statuale, in diverse versioni, quella russa, quella cinese, quella ottomana o persiana, persino il Sacro romano impero, e ciò spiega in parte il ritorno dei nazionalismi, delle piccole patrie.

 

La rivoluzione delle comunicazioni (da quelle fisiche a quelle elettroniche) è stata determinante. E lo sarà ancora di più. Così come è fondamentale l’attrazione per le immense risorse minerarie (petrolio, gas, carbone, oro, metalli pregiati fondamentali per le nuove tecnologie come il berillio del Kazakistan) che rendono i paesi dell’Asia centrale centro strategico della economia globale. Porti, aeroporti, costruzioni dall’aspetto imperiale, grandi catene alberghiere, grattacieli disegnati da archistar, stanno trasformando non solo gli emirati del deserto, ma città un tempo sepolte nella polvere come Astana in Kazakistan, cambiano il volto della Baku oleosa dove Stalin taglieggiava di volta in volta i Nobel e i Rothschild, per non parlare di Ashgabat la bianca capitale del Turkmenistan. Oleodotti e gasdotti, formano una ragnatela ancor più fitta delle ferrovie e delle rotte aeree o marine. Sono l’intelaiatura che collega l’Asia all’Europa e che determina il futuro di entrambi i continenti, dipende da loro se la previsione di Kaplan si realizzerà, ma soprattutto da quale parte penderà la bilancia. La Cina ha investito 300 miliardi di dollari in Europa negli ultimi dieci anni perché il Vecchio continente ha molto da offrire, non solo merci, non solo manufatti sofisticati, non solo abiti che da sempre per l’umanità sono emblemi di differenziazione individuale e sociale, ma idee, valori, cultura, spirito d’iniziativa.

 

Grandi storici dell’economia come Carlo Maria Cipolla o David Landes sono d’accordo nell’individuare il primato dell’occidente dal rinascimento in poi, nello spirito scientifico, più che nella tecnologia in senso stretto. L’astronomia era più sviluppata in Persia o in India, ma è stato Galileo Galilei a cambiare il paradigma scientifico. I cinesi conoscevano la polvere da sparo molto prima degli europei, ma non pensavano di utilizzarla per i cannoni montati sulle navi. Avevano i vascelli più grandi, ma gli europei erano naviganti più bravi. Usavano i caratteri mobili, ma solo Johannes Gutenberg ha stampato il primo libro per tutti i popoli, la Bibbia. La Cina era molto più florida e potente, pensava che l’isolamento le convenisse, scrive Landes nel suo libro “Ricchezza e povertà delle nazioni”, così “l’impero celeste si è ripiegato su se stesso per secoli” ed è decaduto. “Per acquisire le tecniche occidentali, i popoli non europei hanno dovuto sottoporsi a un processo di occidentalizzazione”, sottolinea Cipolla in “Vele e cannoni”. Chang Moulin, studioso e politico cinese tra le due guerre, gli dà ragione: “Sconfitti dalle palle di cannone, siamo arrivati alle invenzioni meccaniche che hanno condotto alle riforme politiche e poi alle teorie politiche e di lì alla filosofia dell’Occidente”, racconta nell’autobiografia “Le onde dell’occidente”. “L’Europa è stata per mille anni il motore della modernità e dello sviluppo” insiste ancora Landes. Questo primato viene insidiato perché la capacità di cogliere e assimilare il nuovo da parte dei paesi a sviluppo tardivo è molto più rapida ed efficace di un tempo. L’industria giapponese ha impiegato circa mezzo secolo per avvicinarsi a quella tedesca dalla rivoluzione Meiji in poi. Oggi quello che un tempo si misurava in decenni si conta in mesi. Adesso come allora, la reazione peggiore è quella di chiudersi in se stessi, per superbia come la Cina imperiale o per paura come l’Italia.

 

Il mondo di Marco Polo è ancor più complesso e conflittuale di quello che il giovane veneziano aveva scoperto e poi dettato a Rustichello da Pisa nelle prigioni genovesi. Sono sotto i nostri occhi le minacce dell’espansionismo russo nel Baltico e nel Mar Nero e di quello cinese nei mari del sud, però il rischio maggiore forse potrà venire da una crisi che metta in discussione il controllo centrale della immensa Russia e della turbolenta Cina, a quel punto i loro regimi autoritari potranno degenerare, secondo Kaplan. Le istituzioni imperiali di Turchia e Iran possono decadere anch’esse proprio mentre l’Europa si frantuma sotto la pressione delle spinte sovraniste e del flusso migratorio dall’Africa e dal Levante. L’Europa non è stata unificata solo con la moneta, come recita il più comune dei luoghi comuni, ma soprattutto da un progetto politico e culturale. E’ proprio questo che viene a mancare.

 

Molti dubbi vengono sollevati sulla efficacia e realizzabilità della nuova Via della Seta cinese. Troppi investimenti e tutti a debito

I confini si spostano rapidamente. Già Fernand Braudel diceva che il limes d’Europa è in Africa e oggi sappiamo anche in quali luoghi: in Niger, o ancor più giù in Nigeria, in Congo; cioè da dove vengono le masse di uomini in movimento verso nord; e là dove, secondo una idea corrente, dovremmo aiutarli. Come? Con i quattrini, con la polizia, con le armi? Svanito il sogno neo-liberale e progressista di esportare la democrazia, cresce da un lato la reazione identitaria che alimenta la voglia di isolarsi, mentre dall’altro emerge una sorta di neocolonialismo per motivi di sicurezza. Entrambi gli atteggiamenti sembrano ad un tempo inattuali e velleitari. Kaplan consiglia agli Stati Uniti di tenersene fuori il più possibile. Un confronto armato con Russia e Cina sarebbe catastrofico (parla di una nuova guerra del Peloponneso come quella tra Atene e Sparta, ma nelle condizioni e con le armi attuali). Del resto, “Putin e Xi Jinping sono attori razionali, in grado di trattenere le spinte più estreme. Sono sfrontati, non pazzi”. Donald Trump dovrebbe imparare dalla strategia della Inghilterra imperiale che non interveniva nei conflitti tra le potenze europee se non quando si presentava il rischio che una potesse prevalere sulle altre. L’America, immensa isola tra due oceani, potrebbe farlo, non l’Europa che rappresenta il terminale occidentale del continente euroasiatico e l’interfaccia dell’Africa.

 

L’Europa non è stata unificata solo con la moneta, ma soprattutto da un progetto politico e culturale. E’ proprio questo che viene a mancare

Noi possiamo reagire in due modi: alzare i ponti levatoi e morire d’assedio come l’antica Cina. Oppure aprire le porte e controllare i punti d’accesso, negoziando, difendendo, rilanciando. Ciò vale per l’economia, ancor più per la sicurezza militare, e per lo stesso soft power, cioè quel potere più ineffabile, ma non per questo meno efficace fatto di cultura, idee, valori, modelli. Non sembri un volo pindarico, ma tutto ciò ci porta dritti a una Italia che perde consolidati ancoraggi, incerta tra presente e passato. Usciamo dalle stanze di sofisticati pensatoi e guardiamo alle scelte concrete, fatte proprio con la concretezza del cemento. La polemica italiana sulle infrastrutture che riempie giornali, tv e social media, appare provinciale e inadeguata. Giusto dire facciamo un’analisi costi benefici, ma tra i costi c’è anche l’isolamento e tra i benefici la partecipazione al grande gioco? Nessuno nel governo gialloverde pone la questione nei suoi veri termini. Si perde così la grande opportunità che il mondo di Marco Polo apre proprio all’Italia. Collocata al centro del Mediterraneo come una grande piattaforma che divide in due il mare, è il punto d’approdo ideale, più della Germania o dell’Olanda. Il problema è che la nostra rete ferroviaria è male integrata con quella europea e i nostri porti non sono sufficienti, competono l’uno con l’altro, sono vittime di un logica di campanile. A ciò si aggiungono i limiti fisici. Prendiamo Genova: senza i nuovi snodi ferroviari e autostradali progettati, quelli che i grillini mettono in discussione, è destinata a rimanere isolata e a deperire più o meno rapidamente. Gioia Tauro non è mai decollata davvero, vista la magra sorte della autostrada Salerno - Reggio Calabria. Il Pireo dopo la rinascita realizzata dai proprietari cinesi è diventato un concorrente ancor più importante. E non sarà l’unico terminale marittimo della nuova via della seta, stanno sorgendo nuovi poli mediterranei, che tendono a specializzarsi. Gli spagnoli, per esempio, non restano lì a guardare; loro, al di là delle convulsioni interne, politiche e ideologiche, una scelta di fondo l’hanno fatta e nessuno l’ha rimessa in discussione.

 

La Tav non è strategica, dicono i pentastellati, ma allora che cosa lo è? Danilo Toninelli predica a favore delle piccole opere, spesso anche di pessimo gusto. Quanto a Matteo Salvini, per lui conta soprattutto la pedemontana lombarda. Nessuno in questo governo, nemmeno i ministri tecnici che pure sono competenti ciascuno per la propria materia (Giovanni Tria, Paolo Savona, Enzo Moavero), ha mai definito il posto dell’Italia in questo scenario geopolitico che supera anche la tradizionale collocazione. Nel nuovo universo di Marco Polo si può persino fare a meno di Bruxelles (anche se ogni singolo stato europeo, Germania compresa, sarebbe più debole) ma non è possibile restare a guardare per un paese come l’Italia abituato da secoli a creare, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo. “Siamo nel Mediterraneo, ma abbarbicati all’Europa” era il mantra della prima repubblica, che accomunava in fondo tutti i grandi partiti, comunisti compresi, era la cornice all’interno della quale Andreotti praticava la sua politica dei due forni e Togliatti metteva alla prova la sua doppiezza. Poi c’è stata la scelta europeista degli anni ‘90 che ha messo insieme sia il centrosinistra prodiano sia il centrodestra berlusconiano, anche se in modi diversi. Adesso c’è un babele di contrastanti messaggi: stiamo con la Russia, con l’Ungheria, con la Baviera, con Bashar Assad, con il generale libico Khalifa Haftar per far dispetto a Paolo Gentiloni che stava con Fayez al-Sarraj. E sopra tutti questi gorgheggi s’alza un sospiro: stiamo per i fatti nostri. Solo che i fatti nostri non sono solo nostri.

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