Dieci anni dentro al tunnel
La crisi “che ha cambiato il mondo” nel gran libro di Adam Tooze. America ed Europa. E la sinistra?
Aproposito della crisi economica mondiale si potrebbe dire qualcosa di simile a quello che Bertrand Russell scrisse della teoria della relatività: tutti sanno che è stato un avvenimento sconvolgente, ma pochissimi saprebbero dire di preciso che cosa sia avvenuto.
A dieci anni di distanza, capirlo appare però sempre più urgente: dall’America di Donald Trump all’Europa della Brexit e della sollevazione populista, le scosse all’assetto sociale, istituzionale e politico dei paesi occidentali seguite a quel terremoto finanziario hanno reso il panorama pressoché irriconoscibile, e non accennano a diminuire. Sul New York Times di domenica scorsa, Fareed Zakaria ha ricordato in proposito una significativa dichiarazione di Steve Bannon. “Quell’implosione dei mercati mondiali non è stata ancora capita”, gli aveva detto lo stratega del trumpismo, in un’intervista fatta durante la tappa romana della sua missione evangelizzatrice tra i populisti europei, giusto all’indomani delle elezioni del 4 marzo. “La miccia che è stata accesa allora, e che ha portato all’elezione di Trump, è la stessa che sta bruciando qui in Italia”.
“Quella implosione dei mercati mondiali non è stata ancora capita… è la stessa che sta bruciando qui in Italia” (Steve Bannon)
Non è detto che Bannon sia la fonte più qualificata e disinteressata per una simile analisi, ma è significativo che Zakaria parta da quell’episodio per parlare di un libro appena uscito: “Crashed - How a decade of financial crises changed the world”. Dettagliatissima analisi dell’inglese Adam Tooze, storico dell’economia che insegna alla Columbia University, e che sin dall’introduzione non manca di osservare come il 2018, per uno studioso di orientamento liberal progressista diviso tra America ed Europa come lui, non sia forse il momento più vantaggioso per tirare un bilancio e cercare di capire come questo decennio di crisi finanziarie abbia effettivamente cambiato il mondo. Ma le cose avrebbero potuto senz’altro andare peggio. Un libro scritto per il decimo anniversario della crisi del ’29, ad esempio, sarebbe stato pubblicato nel 1939. E naturalmente “noi non siamo a questo punto, almeno non ancora”.
Del resto, a che punto siamo – in una scala che va da una ragionevole dose di malgoverno al nazismo – è proprio quello che storici e giornalisti si domandano con sempre maggiore preoccupazione in tutto il mondo, o almeno in quella parte di mondo che ancora per un po’ ci auguriamo di poter definire occidente liberaldemocratico. “Mr Tooze – ha scritto l’Economist recensendo il libro – conclude paragonando le vicende di oggi a quelle del 1914, quando il mondo scivolò verso la guerra in uno stato di sonnambulismo. Ma probabilmente il parallelo più pertinente è quello con il periodo tra i due conflitti mondiali. L’armistizio pose fine alla prima guerra, ma le tensioni che l’avevano generata continuarono a covare e alla fine esplosero ancora una volta”. In altre parole, il punto in cui siamo potrebbe essere proprio questo: non alla fine di una crisi economica mondiale capace di cambiare la faccia della società e della politica occidentali, ma alla sua vigilia. “Le banche centrali – proseguiva l’Economist – hanno posto fine a un infarto economico globale con chirurgia d’urgenza. Ma il paziente è tornato ai vecchi vizi, fumando, bevendo pesantemente e ingozzandosi di cibi grassi. Adesso sembrerà anche in salute. Ma il prossimo attacco potrebbe essere persino più grave e le tecniche d’intervento che hanno funzionato nel passato decennio potrebbero non avere successo una seconda volta”.
Se così fosse, capire cosa sia effettivamente capitato in questo decennio diventerebbe, letteralmente, di vitale importanza. Da questo punto di vista, la tesi del professor Tooze è tanto lineare quanto preoccupante. Il punto di partenza è che parlare di flussi finanziari e squilibri macroeconomici tra economie nazionali è del tutto fuorviante, perché la partita si gioca ormai all’interno di un ristretto insieme di grandissimi gruppi finanziari globali: venti o trenta in tutto. Di conseguenza, “l’amara verità” della tanto celebrata iniziativa della Federal Reserve e delle sue iniezioni di liquidità è che comportava “consegnare migliaia di miliardi di dollari in prestiti a quella consorteria di banche, ai loro azionisti e ai loro dirigenti scandalosamente superpagati”. Per di più, e nonostante la Fed sia una banca centrale nazionale, almeno metà di quella liquidità è servita per sostenere banche non americane, in grandissima parte europee. Ecco perché, per quanto senza precedenti ed efficace possa essere stata l’iniziativa, “anche per quei politici la cui fede nella globalizzazione fosse indefettibile, le sue conseguenze pratiche erano a malapena pronunciabili”.
“Crashed - How a decade of financial crises changed the world”. L’analisi dello storico dell’economia della Columbia University
Di questa e di molte altre impronunciabili verità bisognerà dunque parlare più spesso, se vogliamo che la sacrosanta indignazione e le giustissime campagne contro la post-verità e le fake news del populismo non si ritorcano contro chi, come noi, vorrebbe combatterle. In Europa forse più ancora che in America. Se c’è infatti una cosa che sa, o crede di sapere, anche chi non sa niente di economia, è che la grande crisi del 2008 fu una questione tipicamente americana, causata dai derivati e da mille consimili intrugli partoriti dall’inesauribile avidità di Wall Street; mentre la crisi dell’euro sarebbe stata una crisi del debito, causata dalle spese irresponsabili dei governi mediterranei. Due universi lontanissimi, insomma, quanto la figura di Gordon Gekko e quella di Amintore Fanfani.
E invece, sostiene Tooze, “contrariamente alla narrazione prevalsa su entrambe le sponde dell’Atlantico, la crisi dell’Eurozona non è un evento distinto, ma una diretta conseguenza dello shock del 2008”. La sua ridefinizione come una crisi interna all’Eurozona, causata dal debito pubblico, è stata anzi essa stessa “un atto politico”, frutto di una sorta di “culture war” transatlantica che si è combattuta senza sosta in questi anni.
Ricostruzione analitica dell’intero decennio, il libro non manca di soffermarsi tanto sulle questioni di politica interna dei singoli paesi di volta in volta colpiti dalla crisi, quanto sui suoi riflessi internazionali e geopolitici. Ed è dunque una miniera di spunti e di considerazioni su questioni tanto complesse quanto controverse. Per quel che riguarda in particolare la vicenda italiana, i nostalgici dei governi Berlusconi apprezzeranno senza dubbio le pagine dedicate alle parole di Timothy Geithner, il segretario al Tesoro di Barack Obama, sulle manovre europee per arrivare alla sostituzione del nostro presidente del Consiglio, a margine del vertice di Cannes del novembre 2011, su cui l’autore si sofferma con ricchezza di dettagli (cosa che certo gli farà perdonare l’errore di attribuire le successive dimissioni di Silvio Berlusconi a un voto di sfiducia parlamentare, anziché al semplice venir meno della maggioranza nel voto sul rendiconto dello Stato: dettaglio che avrebbe peraltro rafforzato la tesi). Mentre i nemici di sinistra dell’austerità europea troveranno gran quantità di argomenti a favore della loro posizione, tanto a proposito del trattamento riservato alla Grecia quanto più in generale nel modo in cui viene raccontata, e criticata, tutta la gestione della crisi.
Al riguardo, la tesi per cui l’autore sembra propendere è quella di una sorta di “gioco di prestigio”, la cui logica sarebbe stata “una ripetizione dei salvataggi bancari del 2008, ma questa volta di nascosto”. La grande differenza rispetto al modello, però, sarebbe stata un’altra: “Sebbene la distribuzione dei costi e dei benefici fu scandalosa, almeno la gestione della crisi americana funzionò. Dal 2009 gli Stati Uniti sono cresciuti costantemente e, almeno secondo gli standard delle statistiche ufficiali, si stanno ormai avvicinando alla piena occupazione. L’Eurozona, al contrario, attraverso scelte politiche consapevoli, ha precipitato decine di milioni di suoi cittadini nell’abisso di una depressione da anni Trenta”.
Quell’unica crisi prima finanziaria e poi economica che va dal 2007 al 2012 si è trasformata tra il 2013 e il 2017 in crisi geopolitica
Non si è trattato di un complotto, naturalmente. Anche perché, se anche qualcuno ne ha beneficiato (“quei pochi possessori di titoli di stato che sono stati rimborsati, una banca sfuggita a una dolorosa ristrutturazione”), ciò è avvenuto su piccola scala, in misura “assolutamente sproporzionata rispetto agli enormi costi sopportati”. Costi che in un’ultima analisi sono stati pagati proprio dall’economia europea, a cominciare dalle banche, se è vero, come sostiene Tooze, che dal 2008 “non è soltanto l’ascesa dell’Asia che sta cambiando la gerarchia dell’economia globale. E’ il declino dell’Europa”.
Dunque, quell’unica crisi prima finanziaria e poi economica che va dal 2007 al 2012, e che l’autore definisce come una crisi dell’economia transatlantica (di quel complesso finanziario e istituzionale strettamente interdipendente che si estende da Wall Street alla City di Londra), si sarebbe infine trasformata, tra il 2013 e il 2017, in una generale crisi “politica e geopolitica dell’ordine post-guerra fredda” (per non esagerare con l’ottimismo, segnalo fra parentesi la perfetta corrispondenza tra questa analisi e la tesi di fondo con cui lo storico americano Benjamin Carter Hett spiega la crisi di Weimar, e le non poche analogie con l’attualità, nel suo recente “The death of democracy”).
La responsabilità nazionale e bipartisan del Congresso americano nel passaggio da Bush a Obama che salvò l’America
Particolarmente efficace, nel ripercorrere la lunga genesi della crisi scoppiata nel 2008 con il crollo di Lehman Brothers, è la descrizione del ruolo e del retroterra ideologico di quel gruppo politico-intellettuale cresciuto attorno a Robert Rubin, segretario al Tesoro di Bill Clinton negli anni Novanta, che avrebbe occupato sostanzialmente tutte le postazioni chiave anche nella squadra economica di Obama. Una continuità che spiega molte cose. In breve: gli stessi che procedettero allora alle ultime decisive misure di deregolamentazione finanziaria saranno anche coloro che gestiranno la risposta del governo alla crisi di quel modello. E farà certamente riflettere anche il riformista italiano leggere che il massimo orgoglio di Rubin era l’avere trasformato in surplus di bilancio i deficit ereditati dall’era Reagan. Un atteggiamento che ricorda molto da vicino quell’avanzo primario record vantato nei comizi da un’intera classe dirigente di centrosinistra, come fosse la presa del Palazzo d’Inverno, anche molto dopo che i successivi governi di centrodestra, in Italia proprio come in America, li avevano rapidamente azzerati, per usufruire di quelle risorse in modo più pragmatico e politicamente assai più redditizio.
Il grande merito dei democratici e di Obama, con tutti i limiti di cui pure si è detto, è di avere tirato fuori l’America (e l’Europa) dall’abisso in cui stavano precipitando in un anno appena. A cominciare dal sostegno dato al piano Paulson, uno degli ultimi atti dell’amministrazione Bush, ma soprattutto l’ultimo atto di responsabilità nazionale e bipartisan approvato dal Congresso americano, e solo grazie al decisivo appoggio dei democratici. Qui comincia infatti la sollevazione del Partito repubblicano che dai Tea Party arriverà a Trump.
Una vicenda che ai riformisti riconsegna un dilemma antico: come conciliare senso di responsabilità e disponibilità a sacrificare per il bene del paese anche un pezzo del proprio consenso politico, con la possibilità che la conseguenza diretta di una simile scelta sia l’ascesa al potere di leader per nulla disponibili a fare altrettanto, con il rischio quindi che l’esito ultimo di tanti “sacrifici” sia non solo vano, ma addirittura dannoso, e potenzialmente catastrofico. Senza dimenticare il rischio, sempre presente, di confondere il senso di responsabilità con il conformismo intellettuale, con l’incapacità di vedere i limiti di quello che può apparire al momento l’unico modo di agire ragionevole, e può invece rivelarsi domani il più irrazionale e autodistruttivo.
“Speriamo di essere tutti ricchi e in pensione quando questo castello di carte crollerà”, scriveva in una mail interna, nel 2006, un analista di un’importante agenzia di rating. Ora che quel castello di carte è crollato e l’intera politica occidentale sembra essere entrata in una stagione di “House of Cards”, c’è da augurarsi che la via d’uscita non sia la stessa immaginata dall’Economist. Di sicuro prima il paziente smette di fumare, bere pesantemente e ingozzarsi di cibi grassi, meglio sarà per tutti. Il primo passo per evitare di ottenere gli stessi risultati, è non rifare sempre gli stessi sbagli. Probabilmente, una buona traccia per una politica riformista all’altezza dei tempi potrebbe essere porsi l’obiettivo di sbagliare diversamente.