Jerome Powell. Foto LaPresse

Appunti per Trump da Jackson Hole

Ugo Bertone

La supremazia americana passa dal Re dollaro grazie a Powell, il presidente americano dovrebbe capirlo al simposio di fine estate

Milano. Nel mondo delle Banche centrali spesso il non detto pesa più delle parole. E non farà eccezione alla regola l’esordio di Jerome Powell al simposio di Jackson Hole, il tradizionale incontro di fine estate che si tiene nei boschi del Wyoming fin da quando Paul Volcker, allora presidente della Federal Reserve, accettò di partecipare al meeting purché si tenesse vicino a un fiume ricco di trote.

  

Stavolta, però, toccherà a Powell stare attento a non abboccare alle domande, anche a quelle all’apparenza più innocenti, sull’indipendenza della Fed. Domande scontate dopo che il presidente Donald Trump, infrangendo la regola da sempre seguita dalla Casa Bianca, ha pubblicamente criticato la politica della Banca centrale che, praticando una politica di rialzo dei tassi, “rischia di disfare il magnifico lavoro che stiamo facendo”, a vantaggio dei “nemici”, cioè l’Unione europea e la Cina che tengono le loro valute a “livelli artificialmente alti”. Una provocazione, quella di Trump, che mette Powell in una posizione difficile: se frenerà l’aumento dei tassi, ribadito anche dai verbali dell’ultima riunione, si presterà all’accusa di servilismo verso il potere politico, a danno della reputazione della Fed di fronte agli investitori. Ma se tirerà dritto scaverà un fossato tra la Casa Bianca e l’autorità monetaria che potrebbe rivelarsi pericoloso, specie visto che Trump è un toro ferito dalle inchieste giudiziarie ma è deciso a far ricorso alla solidarietà del Toro di Wall Street, riconoscente per i vari stimoli fiscali che hanno favorito una lunga serie di record borsistici. Da quel che lasciano trapelare gli uomini a lui più vicini, come Robert S. Kaplan, presidente della Fed di Dallas, Powell dovrà dimostrarsi più trumpiano dello stesso inquilino della Casa Bianca. Ovvero, per fare l’America Great again, come vuole il presidente, è necessario “Make the dollar great alone”, secondo le regole della nuova Fed. Basta con le alchimie di Janet Yellen, la colomba democratica che non esitò a rinviare il primo aumento dei tassi per evitare guai alla finanza cinese, alle prese con la bolla del mercato mobiliare. E basta con la sensibilità verso i problemi dei mercati emergenti, così dipendenti dai dollari della finanza di Manhattan. Queste preoccupazioni “global” non abitano più alla Fed, sensibile solo alle preoccupazioni in arrivo dalla congiuntura americana. I segnali macroeconomici non lasciano spazio ad equivoci: la congiuntura accelera, l’occupazione batte record su record, alla pari degli indici di Borsa.

  

Va tutto bene, pure troppo bene. Il rischio è che l’economia si surriscaldi e che un intoppo (la guerra dei dazi, in particolare) inceppi il motore. Di qui la necessità di aumentare il costo del denaro e di drenare un po’ della liquidità che finisce per sostenere le economie più deboli, in America Latina piuttosto che in altre aree calde del pianeta. E mal ne venga a chi non tiene il passo, che si tratti della Turchia o del Sud Africa. Alla fine, secondo la Fed, i conti torneranno anche nei confronti della Cina, messa in grave difficoltà dall’offensiva dei dazi ma ancor di più dalle difficoltà che i banchieri di Pechino cominciano a trovare dopo anni di shopping facile.

 

Insomma, la miglior garanzia per il primato dell’America è un dollaro forte, capace di imporre la sua legge alle altre valute, che si tratti dell’euro, sotto pressione per i suoi problemi, o dello yen. E, prima o poi lo capirà anche Trump che, del resto, ha già detto “Powell lo giudicheremo tra sette anni”, dicendo implicitamente di non avere affatto intenzione di rimuoverlo anzitempo. E lui – salvo sorprese – a quell’epoca giocherà solo a golf e sarà ancora più distante dalla Fed di quanto non sia oggi.

  

Di qui la necessità di nuovi aumenti dei tassi, necessari per garantire lo spazio ai tagli che si riveleranno necessari per evitare che l’inevitabile frenata dell’economia non si traduca in recessione. O ancor più urgente, è necessario ripulire i magazzini, pieni della carta accumulata da Ben Bernanke e dalla Yellen per fronteggiare la crisi, riducendo la liquidità. Passa insomma dalla forza del dollaro la leva di Powell per affermare la supremazia americana, e questo Trump dovrebbe capirlo a Jackson Hole.

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