L'ipotesi del ritorno al casello di stato
Pubblico o privato, peccato che sia sempre monopolio
Dalle strade agli aeroporti, dalle bollette elettriche alle linee telefoniche, è il male oscuro dell’economia italiana. Il pomo della discordia sembra la proprietà, la questione vera invece riguarda il mercato
Il 4 ottobre del 1964 è festa grande nell’Italia ancora ebbra di miracoli: con tre mesi di anticipo, viene inaugurata l’Autostrada del Sole, presenti Aldo Moro, presidente del Consiglio, e i maggiori esponenti del governo. Tra la sfilza di discorsi propagandistici, si distingue l’intervento di Giacomo Mancini, socialista, ministro dei Lavori pubblici: “Solo con il compimento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, si potrà dire che sono state realizzate le finalità con la quale è stata intrapresa la politica autostradale”. A 54 anni di distanza, dopo aver speso oltre 8 miliardi di euro, dobbiamo ammettere che la missione non è ancora compiuta. Non è la prima né l’ultima volta che accade. Nel 1967 viene tagliato il nastro alla Roma-Civitavecchia, primo tratto dell’autostrada tirrenica che, come annunciava solennemente la pubblicità, doveva collegare la capitale d’Italia alla Costa Azzurra. Ebbene, 51 anni dopo, siamo sempre allo stesso punto. Il casello di stato che i grillini vorrebbero riesumare ha tradito molte promesse. Più o meno di quelle mancate dai privati entrati in campo negli anni Novanta? La diatriba tra neo-statalisti e tardo-liberisti è destinata a riempire di retorica pile di giornali, senza portare da nessuna parte se il pomo della discordia resta la proprietà. La vera questione, infatti, riguarda il mercato.
Il monopolio pubblico ha fallito, quello privato non si è rivelato un’alternativa adeguata per gli utenti e per i risparmiatori. La risposta: libera concorrenza
La mano dello stato sulle autostrade, che i grillini vorrebbero riesumare, ha tradito molte promesse degli anni Sessanta
Elettricità, gas, benzina, persino nei telefonini nati come mercato davvero aperto siamo arrivati agli accordi di cartello
La “nuova concorrenza” e “il problema di trovare un padrone, o meglio tanti padroni, al capitalismo italiano” (Prodi nel 1992)
1992, lo stato muratore, lo stato pasticciere, banchiere, chimico, siderurgico, era arrivato al termine, sepolto da una montagna di debiti
Il 1992 è un anno chiave nella recente storia d’Italia: crollata la lira, squassata la Prima Repubblica, quel che restava in piedi della classe dirigente si pose il dilemma di ricostruire, e in che modo, dalle macerie. Lo stato muratore, lo stato pasticciere, lo stato banchiere, chimico, siderurgico e quant’altro, era arrivato al termine, sepolto da una montagna di debiti che si rispecchiava come in uno stagno purulento in un debito pubblico arrivato al 120 per cento del prodotto lordo. Il capitale pubblico aveva fatto supplenza alle debolezze del capitalismo senza capitali come lo chiamava Enrico Cuccia, quello delle grandi famiglie storiche e dei parvenu arricchitisi con la ricostruzione e il miracolo economico. Ma dagli anni Settanta, cioè quando quel modello misto sul quale tanto si vagheggiava entrò definitivamente in crisi, lo stato imprenditore era diventato uno stato barelliere: raccoglieva tutto quel che i privati lasciavano al suolo, per ragioni di consenso politico più che di stabilità finanziaria. Se i debiti pubblici raddoppiarono in poco più di dieci anni, dal 1979 al 1991, la ragione di fondo è proprio questa: le spese, sia quelle correnti sia quelle chiamate “in conto capitale”, non sono mai state bilanciate dalle entrate. Tutto ciò è noto, anche se val la pena rammentarlo, in particolare adesso che le forze politiche al potere si gingillano con le nazionalizzazioni.
Il problema che pose allora Prodi è stato risolto solo in parte e spesso molto male. Non tanto perché i privati erano troppo deboli o non si sono rivelati all’altezza, ma anche perché trovare un padrone non è come trovare un mercato. Privatizzazioni senza liberalizzazioni, di questo soffre il paese. Quando il male è stato diagnosticato, non si è fatto a sufficienza per curarlo: le “lenzuolate” di Pier Luigi Bersani andavano nella giusta direzione, ma erano pannicelli caldi.
L’idea di revocare la concessione ad Atlantia e passare Autostrade all’Anas senza ricorrere a un’asta sembra un’altra sparata demagogica. Non solo. C’è persino il rischio che alcuni ministri vengano accusati di aggiotaggio visto l’impatto che le loro esternazioni senza prove hanno avuto sul titolo Atlantia, che è in portafoglio ai Benetton per il 30 per cento, ma anche a migliaia di piccoli risparmiatori. Il leghista Giancarlo Giorgetti, ricordando i suoi studi alla Bocconi, si è reso conto che lo stato di per sé non dà alcuna garanzia di una gestione migliore; quindi ha annunciato una profonda revisione di tutte le concessioni. Vasto programma seppur meritorio, visto che si tratta di 126 soggetti e ben 35 mila contratti (gas, acqua, elettricità, dighe, rifiuti, telecomunicazioni, radiotelevisione e quant’altro); ma alla fine della fiera risponde alla stesa idea di uno stato che impone dall’alto le sue condizioni. Far pagare di più può essere giusto, come sostiene Carlo Cottarelli, tuttavia non cambia i signori dei monopoli. La storia si ripete, con atti d’imperio che sfidano il mercato, ormai considerato il lupo cattivo di tutte le favole populiste. Eppure non è la repressione, bensì la libertà (che in questo caso è libertà di competere) a rendere le cose migliori.
Nel demonizzare la vendita delle aziende pubbliche si dimentica che fruttò alle casse dell’erario circa 140 miliardi di euro (ai valori di allora), gran parte dei quali usata per ridurre il debito pubblico. Difficile sostenere che sia stata una svendita, al contrario, i governi hanno privilegiato gli incassi, una logica ragionieristica rivelatasi un errore. Si privatizza, sottolineava già allora Francesco Giavazzi, “quando lo stato è un cattivo azionista, e perché la maggior parte delle imprese controllate dallo stato opera in settori dove c’è scarsa concorrenza, vuoi perché ci sono barriere d’ingresso, vuoi perché esistono monopoli naturali, come le grandi reti di trasmissione”. La prima domanda, dunque, che Giorgetti dovrebbe porsi nella sua mega-revisione delle concessioni è aumentare la concorrenza, non sorvegliare e punire (magari con il retropensiero di bastonare i nemici e ammonire gli amici, si pensi a Berlusconi, Mediaset e la concessione radiotelevisiva).
Manifestazione del 2017 a Milano contro la privatizzazione di Atm (Foto LaPresse)
Facciamo un passo indietro, ai tempi delle nazionalizzazioni. Quella dell’energia elettrica nel 1962 fu l’alfa e l’omega dell’apertura a sinistra che portò al governo il Partito socialista. Era contrario Cuccia, soprattutto per il modo in cui venne realizzata, favorevole invece Vittorio Valletta, anche per ragioni politiche: il “primo impiegato della Fiat” come egli stesso amava definirsi, grande sostenitore di Giuseppe Saragat e del Psdi, si era convinto che un governo di centro-sinistra fosse la soluzione per affrontare le tensioni sociali e introdurre le riforme rinviate negli anni del “miracolo”. L’enorme indennizzo pagato agli industriali elettrici (2.200 miliardi di lire) servì per creare nuovi gruppi monopolistici (come la Montedison), mentre l’ente elettrico di stato si è trascinato fin da allora un enorme indebitamento che pesa ancor oggi (37 miliardi di euro). Esiste un’autorità che vigila sulle tariffe e sulla concorrenza, il mercato elettrico è forse quello più maturo ed efficiente, tuttavia le bollette sono comunque superiori rispetto alla media europea. Non corrispondono al prezzo del chilowattora, ma assorbono di tutto, a cominciare dai costi per smantellare le centrali nucleari. Intanto l’Enel, trasformata in società per azioni e quotata in Borsa, è rimasta sotto il controllo del ministero dell’Economia che ne possiede il 23,5 per cento. Nel corso degli anni ha esteso il suo raggio d’azione all’estero (acquisendo la spagnola Endesa) o in settori diversi, per esempio la telefonia e le telecomunicazioni. Esistono produttori elettrici privati (il principale è Edison, erede della antica Montecatini), ma la loro distanza resta abissale.
Non parliamo delle ferrovie. Quando è arrivato Italo, le Fs hanno fatto di tutto per boicottarlo. Hanno parcheggiato i treni nei binari più lontani delle stazioni più disagiate (è accaduto a Roma Ostiense, per esempio), e ancora continua a ritardare fino all’ultimo momento l’assegnazione del binario di partenza, senza dimenticare la pur legittima guerra dei prezzi. La mano pubblica è stata e resta ovunque pesante, e non ha ceduto facilmente ai privati. Tranne che nelle autostrade. Negli anni Settanta l’Italia con seimila chilometri era al secondo posto in Europa dopo la Germania (7.500 chilometri), oggi siamo rimasti più o meno allo stesso livello mentre Francia e Spagna si sono fatte avanti. Cosa è cambiato con il passaggio ai privati? Nonostante quel che sembra, la rete, con 25 gestori di varia grandezza, resta frantumata rispetto alla media europea. L’intero business genera un fatturato di circa 8 miliardi l’anno, l’83 per cento dovuto ai pedaggi. Lo stato incassa l’Iva e il canone di concessione. L’anno scorso l’imposta sul valore aggiunto ha fruttato 1,45 miliardi; il canone oltre 800 milioni.
Nel demonizzare la vendita delle aziende pubbliche si dimentica che fruttò alle casse dell’erario circa 140 miliardi di euro
“Manutenzione delle strade assurda, inchieste, arresti: ho trovato un disastro”, ha detto l’ad di Anas, Armani, arrivato nel 2015
I signori delle strade sono molti, non solo i Benetton, anche se fanno la parte del leone con metà della rete a pedaggio. Al secondo posto il gruppo Gavio (2,4 miliardi di fatturato) che arriva a undici concessioni per 1.423 chilometri, tra queste la Milano-Torino un tempo della Fiat. Oggi è il quarto operatore autostradale al mondo, anche grazie al Brasile con Ecorodovias. C’è Carlo Toto, già proprietario della compagnia aerea Air One poi ceduta ad Alitalia, signore delle autostrade abruzzesi A24 e A25. E c’è l’Autostrada del Brennero, in mano alle amministrazioni locali.
Autostrade per l’Italia è controllata da Atlantia, la quale fa capo per il 30 per cento a Sintonia che a sua volta risale su per li rami a Edizione srl, la holding della famiglia Benetton. Ricorda R&S Mediobanca: “Nel periodo novembre-dicembre 1999 l’Iri ha ceduto l’87 per cento delle azioni Autostrade in parte attraverso una offerta pubblica di vendita e collocamento istituzionale in Italia e all’estero per 8 mila 105 miliardi di lire, in parte mediante trattativa diretta: quest’ultima, pari al 30 per cento del capitale per complessivi 4.911 miliardi di lire, è stata conclusa con la Schemaventotto, società inizialmente costituita da un gruppo di investitori: 60 per cento Edizione Holding (Benetton), 13,33 per cento Fondazione Cassa di risparmio di Torino; 12,8 per cento gruppo Abertis; 6,67 per cento ciascuno Unicredito Italiano e Ina assicurazioni, poi finita in Generali. Il gruppo Benetton ha investito circa 2.900 miliardi di lire, circa la metà mezzi propri, il resto a debito. Il governo allora era guidato da Massimo D’Alema. Riassumendo, lo stato incassò circa 13 mila miliardi, pari a 6,7 miliardi di euro. Nel 2003 la Schemaventotto ha acquistato tutte le azioni di Autostrade non in proprio possesso al prezzo di 10 euro ciascuna, per un controvalore di 6,5 miliardi di euro, in parte a debito. A Palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi. Atlantia resta indebitata (due volte e mezzo il capitale, stima R&S): oggi siamo a 25 miliardi che saliranno a 39 con l’acquisizione della spagnola Abertis. In carico ad Autostrade ci sono 8 miliardi che passerebbero allo stato in caso di revoca della concessione.
La dismissione del 1999 continua a suscitare molti dubbi. Perché la trattativa privata? C’erano altri pretendenti? Davvero bisognava difendere l’italianità delle autostrade (eterno refrain che si appiccica quando è politicamente più opportuno). Era necessario vendere tutto in blocco? Qui torniamo al saggio di Prodi. La strategia in tutte le cessioni era sempre quella di trovare i nuovi padroni collocando una parte delle società sul mercato, ma lasciando un “nocciolo duro” attorno a un azionista di riferimento. Riva, Lucchini, Krupp per l’acciaio, General Electric per Nuovo Pignone, Pilkington per la Siv, i Benetton per le Autostrade e così via. Alle banche ci pensavano le Fondazioni. La più aperta era Telecom Italia per la quale si trovò solo un “nocciolino duro” come disse Massimo D’Alema il quale, alla ricerca anche lui di nuovi padroni, favorì la scalata di Roberto Colaninno e della “rude razza padana”. Dunque, la scelta di fondo non fu il mercato, nonostante quel che si dice oggi, ma un assetto oligopolistico.
E’ questo il peccato originale delle privatizzazioni, non la presunta “svendita”. E’ questo modello, che potremmo chiamare “alla francese”, diverso dal modello inglese che sparpaglia i titoli in Borsa e non consente che ci sia nessun azionista dominante. Si può obiettare che in Italia non c’è un mercato dei capitali abbastanza ampio e maturo da consentire l’esistenza di una vera public company. Quindi i “gioielli” dello stato finirebbero all’estero. Il presunto patto del Britannia stretto nel 1992 tra il governo italiano e le banche d’affari anglo-americane, a bordo dello yacht della corona britannica ancorato a Civitavecchia, domina ancora la polemica sovranista. Ma, anche se l’argomento avesse una sua consistenza, non è stato mai concesso l’onere della prova.
La nazionalizzazione dell’energia elettrica nel 1962 fu l’alfa e l’omega dell’apertura a sinistra che portò al governo il Partito socialista
Quando è arrivato Italo, le Fs hanno fatto di tutto per boicottarlo. La rete autostradale è frantumata rispetto alla media europea
Cosa è accaduto là dove padrone è rimasto lo stato? L’esempio più calzante viene dall’Anas, che oggi sarebbe candidata a impadronirsi di Autostrade per l’Italia, sottraendola ai Benetton. All’azienda statale fanno capo ben 26 mila chilometri di strade. Che non sono affatto gratis, infatti per la loro gestione e manutenzione paghiamo noi, i contribuenti. Denari che l’Anas non sempre ha gestito nel migliore dei modi, come ricorda Lodovica Bulian sul Giornale. “Ho trovato un disastro – ha ammesso l’attuale amministratore delegato Gianni Vittorio Armani, arrivato nel 2015 – Manutenzione delle strade assurda, inchieste, arresti. Una struttura in cui chi gestisce i cantieri non sa neppure dire quanti sono quelli aperti”. Il 40 per cento delle infrastrutture ha più di 35 anni, secondo l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. Nel 2015 è crollato per una frana il viadotto Himera lungo la Palermo-Catania. Tre anni dopo, i lavori sono appena stati aggiudicati e termineranno tra due. L’anno scorso ha ceduto il cavalcavia della tangenziale di Fossano (Cuneo) precipitato su un’auto dei carabinieri, fortunatamente illesi. Tra i 12 indagati per disastro colposo figurano dipendenti dell’azienda. Nel 2016 è venuto giù il cavalcavia Annone Brianza (Lecco). E sono solo alcuni dei casi più recenti in anni di scarsi investimenti in manutenzione ordinaria e straordinaria. Il nuovo contratto di programma che scade nel 2020 ha stanziato 23 miliardi, 11 dei quali per manutenzione. Soldi prelevati dalle imposte, la cui gestione andrebbe accuratamente verificata.
Questo articolo, come avrà capito chi è riuscito ad arrivare fino in fondo, non offre soluzioni prefabbricate, ma pone domande che il governo evita (per la verità ciò vale anche per le opposizioni). La prima questione riguarda le regole: il monopolio pubblico ha fallito, quello privato non si è rivelato un’alternativa adeguata per gli utenti, per i risparmiatori, per i contribuenti. La risposta non è ri-nazionalizzare (operazione del tutto irrealistica), né la repressione autoritaria (ti faccio pagare finché non esproprio tutti i tuoi guadagni), al contrario è la libertà: libera concorrenza in libero stato. I demagoghi forcaioli che hanno gettato un capro espiatorio in pasto ai sanculotti urlanti, sono destinati a passare dei guai, almeno se resterà valido il primato della legge sulla fazione. Danilo Toninelli, che ha lasciato il ministero delle Infrastrutture per la spiaggia, siccome sta “sempre attaccato al telefono”, deve aver compreso una cosa fondamentale: o le sue affermazioni sono sostenute da fatti provati, o è destinato a passare un bel guaio, visto il crollo di Atlantia in Borsa. Vuoi vedere che il popolo genovese, festante invece di piangere davanti alle bare delle innocenti vittime, ha applaudito gli eroi sbagliati? Fossimo in quella gente strafatta di odio, cancelleremmo al più presto gli stupidi selfie dai telefonini.