I Benetton dalle stelle alle strade
Potevano essere la Zara italiana. Ma la rendita monopolistica di Autostrade ha fiaccato la creatività dei quattro fratelli di Ponzano Veneto
Roma. Come ricorda Luigi Zingales nel suo “Manifesto capitalista”, nel Grand Canyon c’è un cartello che intima ai turisti di non dare da mangiare agli animali selvatici, perché altrimenti perderebbero l’abilità di procurarsi il cibo autonomamente. Il capitalismo dovrebbe funzionare allo stesso modo, cercando di preservare lo “spirito animale” degli imprenditori. Ma le cose non vanno sempre così e il caso Autostrade-Benetton è emblematico. In questi giorni la società, sotto la pressione politica e mediatica, ha rivelato tutti gli allegati tecnici e finanziari del contratto di concessione, che prevede un tasso di remunerazione del capitale elevato, che arriva fino al 10 per cento lordo. In tanti in questi giorni, guardando alla storia delle Autostrade e ai profitti macinati da Atlantia, hanno giudicato il processo di privatizzazione come il passaggio da un monopolio pubblico a un monopolio privato. C’è però un altro elemento preoccupante in questa storia, meno visibile della privatizzazione di un monopolio, ed è la simultanea statalizzazione di un imprenditore. Più precisamente dello spirito imprenditoriale di una famiglia dinamica e innovativa come quella dei fratelli Benetton, che partendo da zero, senza soldi ma con l’intuizione di un maglione giallo, hanno costruito una multinazionale da decine di milioni di maglioncini venduti in tutto il mondo.
Che fine ha fatto la United Colors of Benetton? Da quando la famiglia si è lanciata in altri settori – soprattutto autostradali, infrastrutturali e collegati – è in grande difficoltà. Il bilancio del 2016 di Benetton Group segna una perdita di 81 milioni di euro e quello dell’anno scorso segna un ulteriore peggioramento: meno 181 milioni. Il personale si è ridotto del 25 per cento in dieci anni, sono state chiuse le attività in Sudamerica e negli Stati Uniti. Ormai il settore tessile, quello da cui tutto partì, rappresenta solo il 5 per cento degli investimenti di Edizione, la holding di famiglia. Dati diametralmente opposti per il settore infrastrutturale, trainato da Atlantia, che vale il 50 per cento di Edizione, dieci volte i maglioncini colorati. Atlantia – che controlla Autostrade – ha registrato un utile di 1,172 miliardi nel 2017, in aumento del 6 per cento rispetto al 2016. Il gruppo si è ingrandito e oltre alle autostrade italiane gestisce diverse autostrade estere, aeroporti più altri business collegati, come Telepass o le costruzioni. Da ultima è arrivata l’operazione che dovrebbe portare all’acquisizione del colosso spagnolo Abertis, che gestisce autostrade e aeroporti in Europa e Sudamerica.
In pratica i rendimenti alti e a basso rischio (il crollo del ponte Morandi non era un’eventualità contemplata) garantiti dalla concessione autostradale hanno fatto spostare i Benetton dalla giungla di un settore aperto alla competizione internazionale a un settore protetto dal regolatore, in grado di garantire più “cibo” con uno sforzo ridotto. La rendita statale ha in un certo senso spento l’imprenditorialità di una famiglia innovativa, che non ha avuto più interesse a rinnovare il modello di business della sua azienda.
Alla fine la United Colors of Benetton è stata soppiantata, mentre Atlantia andava in Spagna ad acquisire Abertis, dalla spagnola Zara. Ovvero da Amancio Ortega, un altro che partendo da zero ha costruito il colosso globale Inditex (25 miliardi di fatturato) ed è diventato il sesto uomo più ricco del mondo proprio ispirandosi, negli anni Novanta, ai maglioncini e alle innovazioni introdotte decenni prima dai quattro fratelli di Ponzano Veneto.