Casinò Ilva
Perché l’azzardo di Di Maio ha funzionato, ma non per merito suo
Siete alla roulette. La serata comincia male. State perdendo forte. Alla fine, però, decidete di restare al tavolo ancora cinque minuti. Puntate un bel gruzzolo sul rosso. Rien ne va plus. E il rosso esce. Riuscite a recuperare qualcosa, ma il saldo è comunque negativo. Sennonché, in quel frangente, una piacente hostess del Casinò vi nota, e subito vi invita a bere un drink non appena finisce il turno. Domanda: avete perso, certo, ma alla fine è valsa la pena di stare al tavolo verde qualche istante in più? La maggior parte degli uomini risponderebbe di sì, la ragazza è mica male. Tuttavia c’è un guaio in questa serata tutto sommato piacevole: mentre state bevendo un cocktail in compagnia della bella hostess verrete colti sul fatto da vostra moglie che, sentendosi ovviamente tradita, pianterà una scenata epica trascinandovi per le orecchie fuori dal salone, tra le sghignazzate dei presenti. Forse chiederà il divorzio. E’ più o meno così che è andata la serata di Luigi Di Maio al Casinò Ilva.
Il ministro dello Sviluppo economico aveva rinviato di tre mesi l’ingresso nella gestione dell’acciaieria dell’investitore ArcelorMittal e nel frattempo aveva minacciato di annullare la gara che assegnava la gestione del gruppo siderurgico al primo produttore europeo allungando i tempi e comportando una perdita di 90 milioni di euro circa (30 al mese, tanto perde Ilva) per la gestione di stato. Ne è valsa la pena di aspettare e perdere qualcosa. Ieri è infatti stato chiuso un accordo tra ArcelorMittal e i sindacati che, sul piano occupazionale e ambientale, è di gran lunga migliore sia dell’offerta iniziale della compagnia straniera sia del piano proposto dal predecessore di Di Maio, Carlo Calenda. Inizialmente Arcelor aveva proposto di tenere in azienda 8.300 dipendenti su 13.800, con il piano Calenda ne sarebbero rimasti 10.000 sicuri mentre i restanti sarebbero andati o in Invitalia, una agenzia pubblica per l’internazionalizzazione d’impresa che avrebbe fatto da ammortizzatore sociale, e i restanti avrebbero avuto un incentivo all’esodo. Con l’accordo firmato ieri da sindacati e Arcelor dopo una trattativa di circa 18 ore al ministero dello Sviluppo è andata meglio: sono 10.700 i dipendenti assunti da Arcelor, i restanti 3.100 avranno incentivi all’esodo pagati da Arcelor con l’affitto degli impianti di Ilva verso l’amministrazione straordinaria (sono 250 milioni di incentivi su 360 milioni in 24 mesi per l’affitto), saranno circa 2.500. Mentre lavoratori restanti andranno in capo alla gestione commissariale, a occuparsi di bonifiche ambientali, e potranno essere assunti, tra il 2023 e il 2025, da Arcelor che si è impegnata a farlo. Inoltre, le migliorie tecnologiche per l’ambiente sugli impianti saranno più celeri di prima.
Per Di Maio è un successo avere concluso una delle più lunghe e penose vertenze industriali e avere salvato, forse definitivamente, lo stabilimento siderurgico piegato da un’inchiesta giudiziaria sei anni fa. Eppure non può esultare del tutto. In parte, perché non ha legalmente potuto annullare la gara come aveva detto – aveva tentato un azzardo – e, in parte, perché gran parte del merito va soprattutto a Marco Bentivogli della Fim-Cisl e ai dirigenti dei ministero che hanno limato l’accordo con sapienza per portare Arcelor, determinata a prendersi l’acciaieria di Taranto, ovvero il più grande stabilimento a ciclo integrale d’Europa, a non abbandonare la trattativa. Politicamente Di Maio lascia il Casinò Ilva con l’amaro in bocca. Gli ambientalisti tarantini e il M5s – la moglie tradita – protestano in piazza perché il suo partito aveva predicato la chiusura dell’acciaieria che loro considerano un killer per via dell’inquinamento. Ora invece resterà aperta. Il M5s locale è in silente imbarazzo: non sa cosa dire alla gggente. Della nazionalizzazione predicata dalla Fiom – che ora plaude – non c’è più traccia. Dopotutto Di Maio ha salvato l’Ilva, un asset strategico, ma ha tradito gli elettori. E ieri, per riparare, ha proposto un piano per rilanciare la città di Taranto, come fece da premier Matteo Renzi del Pd. Basterà o i suoi vorranno il divorzio?