Appunti per Siri sull'introduzione dei Cir. Parlano gli analisti
Secondo Dws, la divisione di asset management di Deutsche Bank, "sembra proprio che siano i risparmiatori italiani – non gli investitori esteri – a non fidarsi abbastanza del proprio stato"
Milano. Il governo Lega-M5s sta mettendo a punto una strategia per mettersi al riparo dal balletto dello spread, il differenziale dei rendimenti tra i titoli del debito pubblico italiano e i bund tedeschi, che si allarga quando gli investitori percepiscono un aumento del rischio paese e si riduce quando c’è stabilità politica e i conti sono tenuti in ordine. Le oscillazioni di questo parametrosono vissute dalle forze politiche dell’esecutivo di Giuseppe Conte come “attacchi speculativi”. Lo spread ieri era in calo dopo le rassicurazioni di esponenti di governo al Forum Ambrosetti nel fine settimana.
Palazzo Chigi potrebbe adottare una politica difensiva con il ddl sui Cir, i Conti individuali di risparmio, di cui il Foglio ha già scritto. I Cir hanno l’obiettivo di “internalizzare” il debito pubblico riducendo il peso degli investitori esteri e aumentando il peso di quelli domestici. In attesa che il governo si pronunci sulla proposta leghista (il ddl sui Cir ha come sponsor politico Armando Siri e potrebbe essere adottato nella legge di Stabilità) quali sono gli umori del mercato? Pochi si sbilanciano pur ammettendo che, sì, una sproporzione su come è composto il debito pubblico dell’Italia esiste: solo il 5 per cento risulta essere attualmente in mano alle famiglie, al contrario di quanto avveniva a metà degli anni Novanta, quando questa quota era intorno al 30 per cento e gli investimenti in titoli pubblici rappresentavano il 18,5 per cento del risparmio privato. Ma era un’altra epoca e proprio questo raffronto suggerisce un’altra chiave di lettura. Secondo Dws, la divisione di asset management di Deutsche Bank, “sembra proprio che siano i risparmiatori italiani – non gli investitori esteri – a non fidarsi abbastanza del proprio stato. Probabilmente, hanno buone ragioni e non solo politiche”. Le cose sono cambiate con il passaggio alla moneta unica e le politiche di contenimento della spesa per i rendimenti sulle obbligazioni pubbliche. Dall’introduzione dell’euro, il debito pubblico finanziato da obbligazioni è salito da 1.180 miliardi di euro a 1.995 miliardi. Di questo aumento, le Banche centrali ne hanno acquistato 314 miliardi, mentre le istituzioni finanziarie nazionali ne hanno aggiunti 417 miliardi. Gli investitori esteri, nel complesso, hanno aumentato le proprie posizioni di 373 miliardi di euro. Altri investitori italiani, quali famiglie e imprese, hanno invece ridotto le loro posizioni di 289 miliardi, arrivando così a rappresentare quel 5-6 per cento della torta complessiva dei detentori di Btp. In questo quadro Palazzo Chigi vede lo spazio per invertire la tendenza nelle future emissioni, soprattutto in considerazione del fatto che può contare sul risparmio privato italiano, che è tra i primi al mondo (le stime oscillano tra 4 e 5 miliardi).
I Cir sollevano altre domande. Francesco Galietti, nella newsletter della sua società di analisi Policy Sonar, offre un ragionamento che pone in primis un interrogativo: se i Cir sono esentasse, oltre che prevedere benefici fiscali per chi li compra, qual è il vantaggio netto per lo stato? Ma si pone anche un altro quesito: che tipo di rischio correrebbero le famiglie italiane nel finanziare il debito pubblico italiano? “Quello dei Cir rappresenta un esempio di autarchia finanziaria che, peraltro, trova altri precedenti nel mondo anglosassone – dice al Foglio Riccardo Ambrosetti, presidente di Ambrosetti Am Sim –. Potrebbero avere una diffusione anche molto più estesa di Pir, perché nella percezione di chi investe il rischio sarebbe connesso alla stabilità del proprio paese, sulla quale ripone maggiore fiducia rispetto ai risultati delle piccole imprese in Borsa. Potrei aggiungere che l’eventuale adozione dei Cir non dovrebbe distrarre il governo dal perseguire come obiettivo il rigore dei conti pubblici e il rispetto dei parametri finanziari poiché in questo caso il rischio per le famiglie detentrici dei titoli aumenterebbe con l’aggravante di non poter vendere prima della scadenza”.