La gente controlla i tassi di cambio di valuta in un ufficio di cambio a Istanbul (foto LaPresse)

Erdogan sbatte sui limiti esterni e interni del sovranismo monetario

Alberto Brambilla

La Banca centrale turca disobbedisce al “sultano”, che cerca sponde in Russia e Iran esponendosi a rappresaglie americane

Roma. Per contenere una crisi valutaria che ha sconvolto i mercati emergenti e quelli occidentali, ieri la Banca centrale turca ha aumentato drasticamente i tassi di interesse andando contro i desiderata del presidente Recep Tayyip Erdogan, il quale poco prima aveva chiesto di abbassare il costo del denaro per fare marciare un’economia in panne. Aumentando il tasso di interesse di riferimento della Turchia al 24 percento dal 17,75 per cento, la Banca centrale ha spinto la lira turca a salire del 3 per cento sul dollaro dopo che la valuta era scesa ai minimi storici in estate. Gli investitori erano preoccupati per l’accelerazione dell’inflazione e per le ingerenze di Erdogan nella gestione dell’economia e, soprattutto, della politica monetaria.

 

In un comunicato la Banca centrale turca ha detto che ci sono stati “rischi al rialzo” sull’inflazione, nonostante “le più deboli condizioni della domanda interna”. E per questo ha “deciso di attuare un forte restringimento monetario per sostenere il prezzo stabilità”. Con la stretta Ankara si allinea alla tendenza delle grandi banche occidentali Federal reserve, Bank of England, e Banca centrale europea.

 

 

Ma la mossa è disperata e non mette al riparo l’economia turca: la moneta si stabilizzerà ma a un livello più basso nei confronti del dollaro rispetto a un anno fa e molte imprese restano esposte a default. L’aggressività di Erdogan, inoltre, non è ridimensionata. Al di là della battaglia sui tassi, il “sultano” persegue una strategia più ampia, volta a spostare il baricentro delle relazioni economiche turche lontano dall’occidente, anche in maniera brutale prendendo le redini dei bastioni finanziari nazionali. Il governo ha vietato i contratti immobiliari in valuta estera, ripristinando i contratti esistenti in lire. Dopo avere unificato il ministero dell’Economia e quello delle Finanze mettendovi a capo il genero Berat Albayrak, Erdogan ha licenziato il management del fondo sovrano diventando lui il presidente.

  

Gran parte dei problemi attuali, che Erdogan imputa ad agenti esterni, gli Stati Uniti in primis, o interni, la politica monetaria fuori dal suo controllo, sono in realtà auto inflitti. Come ha scritto Daniel Gros, direttore del Centre for European Policy Studies, in un articolo per Luiss Open, tra gli emergenti la Turchia è l’unica a “non aver ridotto il suo deficit delle partite correnti. Ecco il motivo per cui oggi è nei guai”.

   

   

A guardare gli alleati che può scegliere, la strategia di Erdogan di emancipazione dalla sfera di influenza americana pare piena di ostacoli ed esposta a contraccolpi. Il Qatar ha offerto aiuti pari a 15 miliardi di dollari ad Ankara, trovando così il modo per sdebitarsi del sostegno ricevuto da Erdogan durante l’embargo che dal giugno 2017 Arabia Saudita e Emirati arabi uniti impongono sul piccolo emirato. Dopo un summit trilaterale a Teheran settimana scorsa, Turchia, Iran e Russia hanno raggiunto un accordo per condurre scambi bilaterali nelle proprie valute, per evitare l’uso del dollaro americano. La Russia si mette in una cattiva posizione dal momento che è già sotto sanzioni americane e rischia di aumentare il livello di minaccia da parte di Donal Trump, fino a rischiare il divieto all’acquisto del debito russo da parte di investitori esteri che ingolferebbe le banche statali russe. L’Iran, per via delle sanzioni ristabilite dall’Amministrazione Trump, è già tagliato fuori dal commercio internazionale e non ha alternative che unirsi a stati “pariah”. Iran, Turchia e Russia hanno poi valute instabili: non è sicuro stipulare contratti in valute locali se, a distanza di mesi, il valore di un accordo commerciale è da rivedere. Potrebbero adottare l’euro per gli scambi, ma si vincolerebbero a un altro blocco occidentale – peraltro esposto, attraverso il settore bancario, alla crisi turca. La Cina è l’unica che potrebbe essere interessata a intaccare, nel tempo, la dominanza del dollaro. Ma le costerebbe il rischio di rappresaglie dagli Stati Uniti. Erdogan cerca alleati, ma si rivela un sultano solitario in un palazzo decadente.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.