Un altro caffè?
Come si riorganizzano (bene) i brand locali dopo Starbucks. Il fenomeno-start up Caffè Napoli
Non si vive di solo Starbucks. Pardon, Roastery, perché è di questo che si dovrebbe parlare da settimane quando si ragiona di caffè a Milano: ma questa è un’altra (ben nota) storia. Semmai bisogna inquadrare il fenomeno internazionale – il progetto meneghino di Piazza Cordusio è il terzo al mondo e il primo in Europa – in un contesto locale. Nella patria per antonomasia del caffè. Perché l’80 per cento degli italiani beve almeno un caffè al giorno e ne consumiamo di più di chiunque altro sul globo: 6 chili a testa su base annua. Del resto in giro per lo Stivale ci sono qualcosa come 149 mila bar che servono in media 175 tazzine della bevanda ogni giorno.
Fatte queste debite premesse, che cosa sta succedendo in città? Perché c’è tutta questa attenzione? E soprattutto i player tradizionali del settore come reagiscono, se è vero che è dovuto scendere in campo anche l’assessore all’Urbanistica, Pierfrancesco Maran, con un sondaggio su Facebook sul tema delle torrefazioni di qualità (lui predilige tal Ciro in via Plinio in un elenco di 15 esercizi commerciali)? E’ un dato di fatto che l’apertura del brand d’Oltreoceano (raddoppierà con il marchio tradizionale in corso Garibaldi, in un immobile di proprietà di Antonio Percassi, lo stesso che ha portato Roastery nell’ex palazzo di Poste Italiane) stia catalizzando l’attenzione del consumatore medio e non solo. E che con ogni probabilità obbligherà i competitor ad adeguate contromosse. Anche se le dimensioni in campo sono decisamente diverse. Ma basta girare per le vie del centro città, e non solo lì, per capire che l’offerta è vasta e, anzi, si amplia e modifica secondo un “gusto” globale sempre di più. I big nazionali del comparto si sono mossi per tempo e continuano a valutare espansioni in ambito locale. La piemontese Lavazza ha aperto il suo primo flagship store nella centrale piazza San Fedele, alle spalle di Palazzo Marino. Potrebbe essere un progetto pilota per bissare lo spazio (per la parte food c’è stata la collaborazione con lo chef Albert Adrià) in altre aree di Milano. L’avversario triestino Illy è già più consolidato. Perché oltre al locale all’interno dell’aeroporto di Linate da anni ha una presenza fissa in piazza Gae Aulenti e da qualche mese ha triplicato nella centralissima e vippissima via Montenapoleone, all’interno di una corte dove è spuntato anche lo store degli occhiali e del brand Italia Independent di Lapo Elkann. Anche l’altro storico brand della torrefazione, Caffè Vergnano, ha deciso di puntare sul capoluogo lombardo avendo deciso di apporre, per ora, 4 bandierine sulla mappa cittadina: addirittura un locale è stato aperto all'interno di una casa di cura del gruppo francese Korian, un esperimento decisamente innovativo.
Ma sicuramente, per chi è abituato a percorrere vie e piazze di Milano, la novità degli ultimi anni è l’esplosione del fenomeno Caffè Napoli, al punto che in tanti si chiedono come sia possibile questa espansione a macchia d’olio, o per così dire questa colonizzazione, della città. Sì, perché in poco più di due anni la creatura di Fabio e Mauro Compagnoni e Francesco Fiandra ha aperto qualcosa come 16 bar-locali e altri due sono in fase di inaugurazione. Il marchio era sconosciuto, i nomi dei fondatori ancora di più. Ma le insegne oramai sono riconoscibili nei punti nevralgici del centro cittadino e il numero di clienti, con relative mini-code (per le dimensioni ridotte dei locali), dimostrano che l’idea ha fatto colpo sui consumatori. Sarà che mntre la catena si espande rigorosamente in franchising, al banco ci sono ad attendere i clienti 25 tipologie di caffè. Certo, il business zoppica un po’. Ma come scrivono i soci nel bilancio, la società (Exytus srl) viene reputata e parificata a una tradizionale start up (tipicamente in perdita per 3-5 anni) e quindi, per il momento, nessun campanello d’allarme. Anche se i numeri aziendali riferiscono che se i ricavi sono balzati dagli 883 mila euro del 2016 ai 2,39 milioni dello scorso anno, è altrettanto vero che i costi gestionali (un milione solo il costo del personale) hanno portato a un incremento della perdita, passata da 155 a 387 mila euro. Il tutto a fronte di debiti con le banche che sfiorano il milione. Ma a garantire la continuità aziendale c’è un versamento soci in conto capitale di 750 mila euro. Ovviamente il business model, così come è avvenuto per altri food retailer, pare semplice: far crescere la rete di bar (esiste anche una controllata di diritto inglese) e poi cercare magari di venderla a qualche fondo d’investimento. Poi va detto, a onor del vero, che un antesignano delle catene di caffè a Milano è stato Alfio Bardolla, il guru dei consigli finanziari quotato in Borsa che nel 2009 aveva lanciato il concept store Arnold Coffee in tutto e per tutto simile, dal punto di vista del format, al colosso Starbucks. Ma la crescita del progetto in parte si è arenata.