La “casa di riposo Italia” ruba ai giovani e sta con la nuova maggioranza
Ci vuole la rivolta dei giovani contro i populisti che cercano solo il voto anziano e uccidono il futuro
C’è qualcuno disposto a fondare in Italia il Partito dei giovani giovani contro quello dei giovani vecchi? A intestarsi, tra tanti corporativismi malati, l’unica sana battaglia corporativa che il paese meriti? Se c’è un leader con le lentiggini, capace di infiammare la piazza con un’oratoria genuina ed elementare e di spadroneggiare sui social, si affretti a scendere in campo e a sfidare quei due giovani vecchi di Salvini e Di Maio, che con i vecchi vecchi vogliono stringere un patto faustiano: eternare il loro consenso condannando l’Italia a diventare un gerontocomio di lusso, una confortevole Villa Arzilla per sussidiati di stato.
Bisogna fare presto, prima che la leadership gialloverde completi il furto generazionale avviato nelle stagioni precedenti. I tempi stringono. Come ha spiegato su queste colonne Luciano Capone, la manovra si annuncia come il colpo di grazia degli sciacalli nella casa terremotata della gioventù italiana. Tredici miliardi saranno impegnati per garantire pensioni anticipate agli attuali sessantaduenni, in un paese dove chi oggi ha venti-trenta-quaranta anni sa che, quando arriverà a quell’età, per lui non ci saranno neanche le briciole. Così vuole la Lega. Otto miliardi serviranno per rimpinguare la pensione minima di altri anziani. Così vogliono i pentastellati. Almeno sappiamo a che serve il reddito di cittadinanza: a portare alle urne, quando sarà, un attempato esercito di alfieri del consenso assistito. Magari accompagnati in carrozzella dai neoassunti dei centri per l’impiego.
Tredici più otto fanno ventuno miliardi. I due terzi della manovra rischiano di finire in pensioni. Accade in un paese dove il debito, al 132 per cento del pil, racconta la frattura prodotta tra le generazioni dalla più ingiusta delle politiche pubbliche, quella che sta spudoratamente con i più forti, quella che impedisce ai figli di progettare un futuro già ipotecato dai padri. Accade in un paese dove, nell’ultimo ventennio, i giovani hanno peggiorato la loro condizione in una misura che non ha eguali in Europa. Lavorano di meno, il loro indice di disoccupazione è triplo rispetto a quello degli adulti, mentre in quasi tutte le altre nazioni le percentuali si equivalgono. Faticano ad accedere a ruoli di autonomia e di responsabilità, tanto nel lavoro dipendente quanto nelle professioni. Guadagnano molto meno dei padri e molto meno dei giovani di venti o trenta anni fa. Perché le leggi sul lavoro hanno escluso i già assunti a tempo indeterminato dagli effetti della flessibilità, confermando così un mercato duale. Perché il blocco delle assunzioni ha nell’ultimo decennio dimezzato l’ingresso dei giovani laureati nel settore pubblico. E, ancora, perché le liberalizzazioni delle professioni hanno minimizzano l’impatto delle riforme su chi già operava a danno degli ultimi arrivati.
Il declino italiano si specchia in quello che può definirsi l’asse della responsabilità generazionale, distorto a vantaggio degli anziani in una misura tale da far pesare interamente sulle spalle di questi le sorti del paese e da condannare i giovani all’irrilevanza o, in alternativa, all’espatrio. Negli ultimi vent’anni il patrimonio di una famiglia media italiana, con un capo famiglia di oltre 65 anni, è passato da base 100 a 160, mentre è sceso da 100 a 40 quello di una famiglia il cui contribuente maggiore sta tra 18 e 34 anni.
Il conflitto tra gli ultimi e i penultimi della globalizzazione si scrive in Italia su queste sproporzioni. Rinunciando a ridisegnare una mappa delle nuove debolezze sociali e a perseguire una politica di reali pari opportunità, la stessa sinistra di governo ha usurato il rapporto con la sua base elettorale, perdendo credibilità rispetto al ruolo di soggetto trasformativo che pure si era autoassegnata. Rinunciando a ridefinire i fattori dell’eguaglianza, il riformismo ha fallito nel compito di declinare la protezione sociale in cambiamento, affinché fossero i figli ad assumere la responsabilità di trainare il rilancio del paese. Il tentativo di Renzi è stato azzoppato anzitutto dal fuoco amico di un’inguaribile ideologia massimalista. Da sconfitto, anziché rammaricarsi di aver scommesso troppo timidamente sul futuro, il Pd ora a testa bassa rischia di rimettersi sulla via del passato, alla ricerca del consenso perduto.
La maggioranza gialloverde proclama discontinuità, ma imita il peggio della sinistra. Assume e radicalizza i vizi delle politiche che si propone di surrogare. Dopo meno di quattro mesi di governo, questa maldestra continuità è evidente. Certo, il consenso alla leadership di Salvini e Di Maio è alle stelle, ma potremmo dire la stessa cosa della fiducia sulle sorti del paese? Il rapporto tra queste due grandezze mostra un’asimmetria, simbolicamente rilevante, che può far scricchiolare nel tempo l’equilibrio della maggioranza. C’è consenso sul superamento della legge Fornero, sul decreto dignità, sulla chiusura domenicale dei negozi, sulla nazionalizzazione di reti e servizi pubblici. Ma c’è fiducia sulla capacità di questo paese di rimontare il pil?, ridurre il debito?, combattere la disoccupazione giovanile?, frenare la fuga del capitale umano?, riavvicinare il sud al nord? E, da ultimo, sarà il consenso a tradursi in fiducia, o sarà la sfiducia persistente a rosicchiare il consenso?
Da questi esempi si evince la diversa struttura delle due unità di misura qui considerate. Il consenso è inteso come la cifra quantitativa del rapporto tra la massa e la leadership nel presente, riguarda l’essere e il dire, la sua lingua è il pathos, la sua sostanza è egualitaria, cosicché la dimensione plebiscitaria che ha assunto in Italia corrisponde alla disintermediazione di tutto ciò che in democrazia sta tra il centro e la periferia, in nome della consonanza diretta tra il vertice della leadership e la base della piazza. La fiducia invece è da considerarsi come la dotazione qualitativa di futuro che un paese si riconosce, riguarda il fare, si esprime nel logos, non è egualitaria ma selettiva, il suo peso individuale dipende dalla riserva di fiducia di cui il soggetto dispone. La fiducia è quel che resta della delega, è il suo fiume carsico che scorre sotto le rocce di una democrazia disintermediata.
Ci sono segnali evidenti che il verso della fiducia è opposto a quello del consenso. Lo dicono i millecento posti di lavoro bruciati ogni giorno a luglio – neanche l’austerity di Monti riuscì a tanto –, lo dice il calo della produzione industriale, lo dice da ultimo la diffidenza del capitale straniero rispetto alle sorti del governo. Ma i primi a diffidare di sé sono proprio gli alleati di questa strana alleanza. Perché curano l’instabilità, che hanno essi stessi prodotto, blindando l’unico patrimonio di cui non sanno fare a meno: il consenso dei vecchi, numericamente più cospicuo e soprattutto più facile da comprare. Con vitalizi più generosi. O con gli sconti fiscali offerti ai pensionati per venire dall’estero nelle regioni meridionali, come suggerisce qualche stratega bocconiano della Lega, che conosce l’economia assai meno del sud. E che invece di invertire la fuga dei figli, si preoccupa di incentivare il rientro dei nonni.
Casa di riposo Italia è pronta a celebrare il successo della nuova maggioranza. C’è un ragazzo di talento e di sana impertinenza capace di sabotare questo sinistro progetto? In tempi di disintermediazione, in cui il valore dei saperi e dell’esperienza è sotto i tacchi, non resta che sperare nell’azzardo di un Gian Burrasca.