Michele Tedeschi (foto Imagoeconomica) è stato dal 1994 al 1997 alla guida dell'Iri, l'Istituto per la Ricostruzione Industriale

Non sarà lo “stato imprenditore” a rilanciare l'innovazione del paese

Luigi Marattin, Raoul Minetti, Irene Tinagli

Bassa efficienza e costi elevati: la modernizzazione tecnologica non può fare a meno delle aziende private

Il crollo del ponte Morandi a Genova ha riaperto il dibattito sul ruolo dello stato nell’economia. Alcuni esponenti della maggioranza auspicano il ritorno a uno “stato imprenditore”. Altri non si spingono a chiedere nuove nazionalizzazioni ma invocano comunque un ruolo più forte dello stato in alcuni settori, come ha fatto l’aspirante segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, in una recente intervista a Repubblica, in cui richiamava la necessità di uno stato leader nei processi di innovazione. Ma siamo sicuri che sia una via praticabile o anche solo auspicabile?

 

Molti economisti hanno già evidenziato come il ritorno a un ruolo pesante dello stato nella vita economica del paese avrebbe costi proibitivi. Ma la domanda forse più rilevante è se lo stato sia in grado di gestire direttamente attività imprenditoriali nella complessa realtà economica di oggi e, soprattutto, se sia in grado di gestire direttamente i processi chiave per la modernizzazione tecnologica del sistema produttivo. Noi pensiamo di no, per due principali motivi.

 

Innanzitutto ci sono questioni di efficienza: anche non tenendo conto dei rischi collegati alla corruzione, alla strumentalizzazione politica e al clientelismo che purtroppo hanno caratterizzato molte grandi partecipazioni statali del passato, restano comunque considerazioni sulla intrinseca lentezza che le organizzazioni statali hanno nel rispondere alle sfide di un ambiente fortemente dinamico come quello economico di oggi e più ancora di quello riguardante l’innovazione tecnologica. Si tratta di contesti in cui è necessario saper identificare e cogliere opportunità in tempo reale, assumendo i migliori scienziati del mondo, dismettendo o riqualificando le competenze non più adeguate, allacciando e ridefinendo alleanze, progetti e investimenti in tempi rapidissimi. Le strutture pubbliche non sono in grado di garantire questa reattività.

 

Il problema non è solo italiano. Tant’è vero che addirittura la Cina (talvolta citata ad esempio come paese in cui lo stato sa gestire e investire bene in innovazione) sta sperimentando una crisi di efficienza enorme delle grandi aziende pubbliche. Dati recenti rivelano che nell’ultimo decennio le circa 300 principali imprese di stato cinesi sono state significativamente meno capaci di incrementare la loro efficienza delle controparti private, con un rapporto utile netto sul capitale crollato dal 16 per cento del 2007 al 7 per cento nel 2017.

 

In secondo luogo, al di là della scarsa flessibilità della burocrazia statale, sono le trasformazione profonde del sistema produttivo negli ultimi 20 anni a mettere in discussione l’utilità di uno stato promotore, gestore diretto o “leader dell’innovazione”. Nel dibattito italiano si fa talora riferimento alle interessanti analisi di Mariana Mazzucato sul ruolo dello stato investitore diretto nell’innovazione negli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta. Analisi che tuttavia riflettono le esperienze del sistema produttivo di quell’epoca, caratterizzato da una forte integrazione verticale della produzione e dell’innovazione, con grandi imprese manifatturiere, motore di larga parte dei processi innovativi. Ma oggi non è più cos. Le filiere produttive – o “catene del valore” – sono sono sempre più frammentate, globalizzate e vedono una commistione crescente tra elemento manifatturiero e servizi. Le catene del valore hanno sempre più estensione globale: la partecipazione delle imprese italiane alle catene del valore globali ha superato in anni recenti il 50 per cento, con una crescita di quasi il 20 per cento negli ultimi 20 anni. La frammentazione della produzione lungo le catene del valore domestiche e globali fa sì che gli investimenti in innovazione tecnologica negli anni Cinquanta e Sessanta, centralizzati in grandi imprese manifatturiere verticalmente integrate, siano oggi sempre più segmentati tra i molteplici attori delle filiere produttive, dalle piccole e medie imprese fornitrici di beni intermedi, agli utilizzatori a valle di beni intermedi, alle imprese che forniscono alle filiere servizi di logistica, comunicazione e marketing. In anni recenti la decentralizzazione dei processi innovativi ha riguardato anche progetti di ricerca e sviluppo sofisticati: le imprese sentono sempre più l’esigenza di delegare ricerca e sviluppo ai partner della filiera più a contatto con i mercati esteri e che quindi meglio sanno cogliere mutamenti nelle esigenze di consumi e produzione nei mercati locali. La natura stessa delle innovazioni è mutata radicalmente con innovazioni all’interno delle filiere che sempre più spesso riguardano processi produttivi e organizzativi e pratiche manageriali cucite attorno ai singoli attori della catena del valore.

 

Insomma: ormai i vecchi modelli lineari d’innovazione sono completamente saltati, e anche da tempo. Non è un caso se molte grandi imprese private oggi rinuncino a condurre direttamente tutte le attività di ricerca e sviluppo collegate al loro settore di attività: semplicemente non è più efficiente farlo, mentre è più conveniente affidarsi a modelli di innovazione decentrata o aperta. Tra l’altro, recenti ricerche mostrano come le aziende con attività di ricerca più decentrate sono quelle che hanno migliori performance e maggior valore nei mercati. Perché quindi dovrebbe farlo lo stato?

 

Lo stato può e anzi deve svolgere un ruolo fondamentale nel creare le condizioni affinché questi processi e questi mercati funzionino nel migliore dei modi, senza distorsioni e in modo più efficiente possibile. Innanzitutto formando capitale umano di eccellenza nei settori chiave per l’innovazione, un compito che le aziende private non sono in grado di assolvere da sole. In secondo luogo aiutando le piccole e medie imprese a inserirsi nelle catene del valore e ad assorbire know how all’interno delle filiere, con contratti di rete a favore delle filiere, misure che sostengano la creazione di mercati di capitali fluidi e accessibili per le imprese che vogliano investire in innovazione, così come per attori che desiderino proporsi come incubatori finanziari (venture capital/business angel). In terzo luogo, promuovendo partnership tra imprese a monte e imprese a valle delle filiere, inclusi strumenti di assicurazione per le piccole e medie imprese che investano in attività rischiose di innovazione. Per finire, assicurando un ammodernamento della rete di infrastrutture materiali e immateriali in cui le filiere produttive si trovano a operare. Sono questi compiti fondamentali per lo stato che possono facilitare efficacemente le trasformazioni tecnologiche e produttive dell’economia contemporanea, più delle nostalgie per un passato antico di stato imprenditore.

 

Queste policies dovrebbero costituire le proposte per l’innovazione all’interno di un programma politico che voglia andare oltre gli slogan orecchiabili e rassicuranti e che sappia invece affrontare con competenza e coraggio le sfide dell’economia contemporanea. Con la testa rivolta al futuro, e non a un passato che – chissà poi perché – tendiamo a vedere sempre molto più brillante di quanto non fosse in realtà.

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