Un'altra grande griffe vola all'estero, ma non è una sconfitta del made in Italy
La maison Versace passa di mano e va in America, alla scuderia di Michael Kors
Milano. Il canto del cigno è stato intonato un anno fa, quando sotto la regia di Donatella Versace, sulle passerelle della Fashion Week milanese, sfilarono tutte assieme le ex ragazze, ancora bellissime, già vestite (o svestite) dal fratello Gianni. C’erano tutte, dalla première dame Carla Bruni a Naomi Campbell fino a Claudia Schiffer. Tutte a celebrare un mondo che da oggi ufficialmente non c’è più: la Gianni Versace Spa, una delle ultime maison del lusso indipendenti, è passata di mano. D’ora in poi il marchio della Medusa farà parte della scuderia di Michael Kors, l’astro nascente della moda americana, che sogna di costruire una flotta di marchi alternativa alle ammiraglie francesi, Lvmh e Kering che hanno rinunciato all’operazione, giudicata troppo costosa. Ma non da Kors – nome d’arte di Karl Anderson, figlio di un’ex modella, lo stilista preferito da Jennifer Lopez – che un anno fa si era aggiudicato il controllo di Jimmy Choo per un miliardo di dollari. Più o meno la metà di quanto ha accettato di pagare, al lordo dei debiti, la casa milanese. Mica poco, se si pensa che, nonostante la severa ristrutturazione in atto dal 2014, da quando nel capitale di Versace è entrato il fondo Blackstone, che ha curato le trattative di vendita, la società ha chiuso il 2017 con un guadagno di soli 15 milioni di euro dopo aver registrato un rosso di 7,4 miliari l’anno prima su un fatturato di 668 milioni. Di fronte a questi numeri, dopo aver preso atto che una quotazione in Borsa era possibile solo a prezzi di saldo, gli eredi, forti di una quota pari all’80 per cento del capitale della finanziaria Givi (la maggioranza è nelle mani di Allegra, la figlia di Donatella che a sua volta possiede una quota al pari del fratello Santo), hanno accettato di cedere il controllo del gruppo creato da Gianni, l’ex ragazzino prodigio che, a 14 anni, già padroneggiava le arti della sartoria apprese nella boutique della madre a Reggio Calabria.
Si chiude un altro capitolo della storia del made in Italy, incapace di costruire attorno a una storia di successo un gruppo più strutturato, in grado di reggere nel tempo senza finire nell’orbita di un potere finanziario più solido. Ma questa considerazione, ripetuta fino alla noia dopo le cessioni di Gucci, Valentino, Fendi e così via, rischia di fornire un’immagine distorta delle condizioni del sistema moda Italia, una macchina da guerra che occupa 500 mila addetti generando 24 miliardi di valore aggiunto, un decimo dell’intera industria manifatturiera italiana. A leggere questi numeri, ricavati dalla recente indagine sul sistema moda di Intesa Sanpaolo, svanisce ogni possibile invidia per i primati di Bernard Arnault e di François Pinault, i due re del lusso europeo così attivi anche in Italia. Il primato finanziario dei colossi parigini non si è tradotto in una fuga di fatturato né, tanto meno, di competenze. Basti dire che una quota rilevante, il 6,2 per cento della produzione dell’alta moda francese, viene realizzato in Italia. Per averne una prova tangibile, per esempio, può bastare una gita in quel di Novara dove, a due passi dal centro, ha sede Zamasport, l’azienda che, negli Anni Settanta, diede per prima fiducia al genio del giovanissimo Gianni Versace, che qui mosse i primi passi in Callaghan, una delle prime e più prestigiose sigle del pret à porter tricolore. Oggi l’azienda, che da sempre fa capo alla famiglia Greppi, ha rinunciato a produrre con il proprio marchio ma si è trasformata in un’eccellenza produttiva che serve le griffe, per lo più (ma non solo) francesi, per cui cura le confezioni di eccellenza al punto che, tra le quinte delle sfilate di Parigi (o di Milano) si aggirano le sarte piemontesi per l’ultimo ritocco. E’ un fenomeno diffuso visto che Il 70 per cento circa delle esportazioni italiane della moda (pari a circa 51 miliardi di euro nel 2017) si posiziona sull’alta gamma.
Nonostante la forte pressione concorrenziale, derivante dall’avanzata dei player asiatici, l’Italia mantiene così ancora, elevate quote di mercato con punte del 21 per cento nella gamma lusso di pelli e pelletteria. L’Italia, insomma, si presenta ancora oggi come l’officina di punta della moda, capace di mantenere in casa il 78,7 per cento della produzione contro il 60 per circa dell’industria francese. Certo, a questi primati contribuiscono la famigerata “flessibilità” vedi il lavoro nero denunciato dalla recente inchiesta del New York Times. Ma sarebbe ingeneroso, anzi ingiusto, liquidare così il rapporto con subfornitori e terzisti locali, una delle forze trainanti del successo dei grandi stilisti, compreso Gianni Versace, uno dei primi a mettere al bando le fibre sintetiche abbandonate per i tessuti naturali, comprese le lane ruvide dell’isola di Aran. Lui, che prima della sua fine tragica, stava pensando ad un’integrazione con Gucci. E la storia, se si fosse realizzata all’epoca quell’alleanza, avrebbe forse preso un’altra piega.