Cari sovranisti, se piangete per Versace fatevi un giro nei birrifici
C'è un'Italia che non si lagna, non chiede interventi della Cassa depositi e prestiti e innova: il caso prima birra al mondo ricavata dall’aria
Roma. La prima birra al mondo ricavata dall’aria – oltre che dal luppolo e dal malto, certo – viene dall’Italia; ma l’Italia, governativa e giornalistica, è troppo impegnata a piangere la vendita di Versace al newyorchese Michael Kors e ad aggiornare l’elenco delle aziende tricolori finite all’estero (le acquisizioni italiane oltreconfine non fanno notizia) per accorgersene. La notizia trova così spazio su Efe, agenzia di stampa spagnola e quarta al mondo dopo Reuters, Ap e France presse, ed è ripresa da Expansión, il primo quotidiano economico madrileno, per inciso di proprietà dell’italiana Rcs Mediagroup. Di che si tratta? Birra Flea, azienda di Gualdo Tadino ha applicato alla bibita la tecnologia di sfruttamento dell’umidità dell’aria per produrre acqua, tipicamente il residuo dei climatizzatori, alimentata però da pannelli solari e convogliando aria pura di elevata qualità come quella che contraddistingue le colline umbre. “In questo modo – dice l’azienda – possiamo ricavare 1.200 litri di acqua al giorno, interamente ecosostenibile, al costo di zero euro”.
Expansión ricorda che Birra Flea oltre a vendere in Italia esporta in Stati Uniti, Canada, Cina, Giappone, Macao e Australia. Scavando un poco si scopre che è stata fondata solo cinque anni fa da due giovani imprenditori, il 37enne Matteo Minelli e sua moglie Maria Cristina, che ha finora prodotto sette tipi di birre interamente artigianali, compresa una gluten free. Alle quali si aggiunge la nuova birra “fatta con l’aria”, chiamata Sans Papier e presentata il 13 settembre a Milano. Sembra una piccola cosa rispetto alle paginate riservate a Versace o alle “gravi preoccupazioni ogni volta che sento di un’azienda italiana che finisce in mani straniere” di Matteo Salvini? Chissà, forse il nazional-sovranismo potrebbe ricordare il boom delle birre artigianali italiane, più 535 per cento in dieci anni, numero di produttori passato da 113 nel 2008 a 718 nel 2017, 50 milioni di litri venduti, e conseguente calo del 31 per cento del consumo di birra tedesca e del 79 per cento di quella inglese. Dati che sono sicuramente noti al ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, il quale però preferisce cercare voti dipingendo un paese bisognoso di un ritorno massiccio allo statalismo industriale, altrimenti non ce la fa, e di un egualmente massiccio assistenzialismo pubblico alla popolazione. Così come il ministro dello Sviluppo e l’altro vicepremier ministro dell’Interno, che ama farsi i selfie nei mercati di quartiere e nelle pizzerie, non ignoreranno che la birra italiana, non più basata sui vecchi marchi industriali ma appunto sui micro birrifici artigianali, ha raggiunto la produzione record di 15,6 milioni di ettolitri, 2,7 esportati, con 140 mila addetti tra dipendenti e indotto (3 mila in più nel 2017 sul 2016). Certo, può dispiacere che Versace sia finita in mani straniere. I giornaloni però, forse sensibili alla tradizionalmente ricca pubblicità delle griffe, preferiscono raccogliere la lamentela di Donatella (“Qui non si è fatto avanti nessuno”), magari non riflettendo sul fatto che la proprietà di gruppi stranieri più globalizzati portano ai brand italiani della moda maggiore occupazione e fatturato: 550 mila addetti e 24 miliardi di valore aggiunto, come ha scritto il Foglio del 25 febbraio. E questo grazie anche ad un management che più che ai legami dinastici guarda ai mercati: vedere alla voce Fiat, oggi Fca, e al compianto Sergio Marchionne, che mai conobbe personalmente l’Avvocato. Un consiglio a tutti, ministri sovranisti, stampa e piagnoni da social network: alzate un po’ lo sguardo e scoprirete un altro paese, che non si lagna, non chiede interventi della Cassa depositi e prestiti e, quanto alla birra, dà la paga a tedeschi e inglesi. Prosit.