Il Gosplan europeo di Savona
Centralizzare, pianificare, spendere e stampare soldi non è garanzia di successo. Anzi
Il 7 settembre scorso il ministro per gli affari europei del nostro governo, Paolo Savona, ha inviato a Bruxelles una quindicina di pagine in cui si riconosce l’importanza del Trattato di Roma ai fini della liberalizzazione commerciale, si considera l’euro “parte indispensabile” del mercato comune e del suo “modello di sviluppo”, e si richiama l’attenzione sulle debolezze istituzionali dell’Unione, debolezze che, secondo il ministro Savona, hanno rallentato la crescita e creato disoccupazione. In sostanza, il documento lamenta la mancanza di una politica della domanda aggregata, che non può dispiegarsi a causa dei vincoli attualmente in vigore sul disavanzo e sul debito pubblico dei paesi membri. Vincoli meno restrittivi, si suggerisce, avrebbero permesso e permetterebbero di gestire con maggior efficacia la finanza pubblica in molti paesi attualmente in difficoltà.
Savona ha ragione nel temere che il suo piano di aumento illimitato della spesa in deficit finanziato da Bruxelles incontrerebbe resistenze
Secondo il nostro governo, il primo passo per risolvere i problemi economici dell’Unione sarebbe la costituzione di un gruppo di lavoro europeo incaricato di identificare entro la primavera 2019 – ovverosia prima delle elezioni europee – una “rinnovata chiave interpretativa dei Trattati”. Questa chiave dovrebbe dare luogo a un quadro normativo che consenta il rilancio della domanda aggregata, un rilancio che sarebbe addirittura obbligatorio per i paesi con un avanzo corrente verso l’estero (per esempio, Paesi Bassi, Germania e Italia). Inoltre, sempre secondo il documento redatto dal ministro Savona, occorrerebbe porre le premesse per istituire un sistema scolastico-universitario unico per tutta l’Unione, affinché i giovani percepiscano i valori della cultura europea e siano pronti a recepire l’idea dell’unione politica e della centralizzazione economica. Infine, il nostro governo invoca maggiori poteri per la Banca centrale europea, alla quale dovrebbe essere permesso (ordinato?) di assecondare l’aumento della spesa pubblica finanziata con debito, di promuovere azioni di salvataggio a favore di paesi con difficoltà strutturali, e di intervenire sul tasso di cambio favorendo le esportazioni e, più in generale, la competitività dei produttori del continente.
Questo documento si presta a considerazioni che riguardano i suoi contenuti economici e ad alcuni brevi cenni sulle sue finalità politiche. Per quanto attiene all’economia, i concetti richiamati, in lode della domanda aggregata, sono poco convincenti. Il documento finge d’ignorare che la ricchezza di un’economia equivale alla sua capacità di produrre beni e servizi apprezzati dagli acquirenti – consumatori e investitori. Non si cresce perché si domanda di più, come sostiene il documento; bensì perché i produttori sono in grado di soddisfare i bisogni dei consumatori in modo migliore (innovazione di prodotto), e/o ricorrendo a tecnologie sempre più sofisticate (innovazione di processo). Se bastasse domandare di più, o se bastasse stampare più moneta cartacea, avremmo risolto il problema della povertà da secoli. Affermare che la ricchezza dipende dal valore di quanto si produce sembra banale. Si tratta della cosiddetta “legge di Say”, che è stata data per scontata dalla maggior parte degli economisti che hanno davvero letto Say – Keynes non era fra questi – e che hanno resistito alla tentazione di assecondare i desideri di spesa della politica.
Ora, prima di proporre di ampliare ulteriormente il ruolo della spesa pubblica nelle nostre economie – un esperimento che non ha riscosso molto successo negli ultimi decenni – Savona e gli estensori del documento dovrebbero domandarsi se lo stato è davvero in grado di spendere i soldi dei contribuenti acquistando beni e servizi a loro effettivamente graditi e a prezzi ragionevoli.
In caso di risposta negativa, si deve necessariamente concludere che la politica della domanda aggregata distrugge – non crea – ricchezza: quanto basta per archiviare il documento e occuparsi d’altro. In caso di risposta affermativa, sarebbe allora opportuno domandarsi come mai lo stato è così efficace nel soddisfare i bisogni degli individui, mentre gli imprenditori privati sono sostanzialmente degli incapaci. Una risposta plausibile, naturalmente, è che la mano pubblica ha fatto e continua a fare di tutto per penalizzare l’attività imprenditoriale privata. Chi può delocalizza; e chi non può delocalizzare evita d’impegnarsi in progetti che sarebbero sì utili per la collettività, ma che rischiano di diventare una fonte di perdite dopo che ci si è imbattuti nelle mille difficoltà create dallo stato (intralci burocratici, sistema giudiziario gravato da mille problemi, imposte inique ed eccessive, regolamentazione e talora anche corruzione). Insomma, occorrerebbe prendere atto che l’individuo non è limitato dalla propria domanda (vogliamo stare sempre meglio e avere sempre di più, anche senza una spesa pubblica che ce lo ricordi). Piuttosto, i limiti provengono dalla capacità di produrre senza sprecare. Dunque, se vogliamo crescere, dobbiamo mettere gl’imprenditori in condizione di produrre di più e meglio. Spostare i centri decisionali di spesa dalle capitali europee a Bruxelles e realizzare una politica fiscale centralizzata e armonizzata non è garanzia di successo, così come non sono stati garanzie di successo l’ufficio di pianificazione centralizzata del Gosplan sovietico e la stamperia di moneta di Caracas.
Non si cresce perché si domanda di più; bensì perché i produttori sono in grado di soddisfare i bisogni dei consumatori in modo migliore
Per nostra fortuna, la maggior parte degli europei, pur non avendo letto Say, diffida delle capacità imprenditoriali dei politici e dei burocrati, non è affatto convinta che la burocrazia di Bruxelles sia particolarmente snella e dotata di talento imprenditoriale, e dubita che una raffica di direttive europee sia la bacchetta magica che rilancerà un continente che fatica a sopravvivere a imposte, regolamenti, e continui cambiamenti (solitamente in peggio) delle normative.
Gli estensori del documento romano dimostrano di essere consapevoli di questa diffidenza, che attribuiscono al rigore di Maastricht e alla mancanza di senso di appartenenza europea dei 515 milioni di persone (circa) che costituiscono la UE-28. Non è però del tutto evidente che le autorità possano recuperare immagine, autorevolezza e credibilità obbligando i cittadini europei a sottoporsi a una sorta di lavaggio del cervello presso scuole apposite, che si sostituirebbero alle scuole attualmente operanti nei paesi membri, alle quali tutto si può attribuire, ma certamente non il culto della responsabilità individuale, dello stato minimo, della proprietà privata e della libertà di scelta. Insomma, il nostro ministro per gli Affari europei ha probabilmente ragione nel temere che l’aumento della spesa pubblica finanziata con debito illimitato e in qualche modo diretta da Bruxelles incontrerebbe non poche resistenze “culturali”, soprattutto in alcuni paesi. Resta da vedere se sia opportuno aggirare l’ostacolo con un lavaggio del cervello su scala continentale o se, invece, non sia preferibile dare più spazio alle scuole private e alla libera scelta dei programmi scolastici, nell’auspicio che almeno in alcuni casi si attribuisca rilievo alla figura dell’imprenditore e all’istituto della concorrenza senza se e senza ma, elementi fondamentali per la riflessione sulla crescita economica e l’educazione economica dei nostri giovani.
Concludiamo con un’annotazione politica. Come si è detto, in più punti il documento fa riferimento alla necessità di dare dei segnali importanti prima delle prossime elezioni europee del maggio prossimo. Sulla carta, tanta urgenza è giustificata dal fatto che l’avvio di un progetto (a guida gialloverde?) di spesa pubblica finanziata da debito con garanzie europee fermerebbe l’emorragia di credibilità di cui soffre l’Unione e rilancerebbe l’intero progetto europeo, euro compreso. Nella realtà, a questa spiegazione potrebbe aggiungersene un’altra. Con quelle pagine il nostro governo ha voluto affermare formalmente la propria fiducia nell’euro come elemento essenziale di un progetto europeo in cui l’Italia si riconosce. In questa chiave si tratterebbe di un gesto volto a tranquillizzare le autorità di Bruxelles, alle quali si offre anche sostegno per la realizzazione dell’integrazione politica e dell’armonizzazione fiscale, obbiettivi a cui la Commissione ha sempre aspirato, con scarso successo. Non si tratterebbe, tuttavia di un’offerta gratuita: di fatto Roma sta chiedendo il permesso di violare le regole di Maastricht e di quanto previsto dal cosiddetto “patto di bilancio” del 2012 (del resto, come si farebbe a pretenderne il rispetto quando una commissione ufficiale è al lavoro per reinterpretarle?) e forse anche il riconoscimento della italica coalizione gialloverde come rappresentante e guida dei populisti euro-diffidenti. Non sarebbe una mossa priva di coerenza, tanto più che in questo frangente al nostro governo non mancano le promesse elettorali da rispettare. Naturalmente, ciò potrebbe non bastare per essere presi sul serio a Palazzo Berlaymont. Tuttavia, se il tentativo conseguisse anche solo un parziale successo, le ricadute che potrebbero avere a livello nazionale sarebbero notevoli.
*Professore di Politica Economica,Università di Torino