Ripristinare la Prima Repubblica e mandare il conto a Bruxelles. E' questo il piano A
Il governo gialloverde punta a realizzare ciò che gli italiani vogliono, ma non ciò di cui avrebbero bisogno
Trovare una logica nelle azioni dell’attuale governo è forse un esercizio inutile, ma non sterile, e la storia dei piani B, dell’uscita dall’euro, e degli improbabili interventi russi, cinesi o americani a sostegno del debito sembra un “gioco del pollo”. Il gioco consiste in due macchine che corrono l’una contro l’altra: se nessuno esce di strada muoiono entrambi i piloti, ma chi esce per primo perde. I due contendenti sono il governo italiano e l’Unione europea, e la posta è la possibilità di scaricare sugli altri paesi europei il costo delle politiche italiane. Mario Seminerio sul Foglio esclude questa ipotesi assumendo che i trattati lo vietino, ma quanto sono credibili questi ultimi?
La mancanza di credibilità è stata il vulnus dell’euro dalla sua nascita. Se le clausole che vietavano i salvataggi sovrani fossero state credibili sin dall’inizio, gli spread non si sarebbero annullati dal 1999 al 2009, mossa spiegabile solo assumendo che i mercati credessero nella mutualizzazione del rischio sovrano. Centinaia di miliardi l’anno non sarebbero fluiti verso la periferia per finanziare “investimenti” come pensioni per le figlie nubili dei dipendenti pubblici in Grecia o villette in Andalusia. Di fronte a una scelta tra regole e discrezione, la Banca centrale europea ha deciso di aggirare il divieto di bail-out per rispondere alla crisi iniziata nel 2010. Fosse stata credibile, la crisi si sarebbe potuta prevenire, perché gli spread non si sarebbero annullati, ma provare a diventare credibili all’apice della crisi sarebbe stato suicida. Difficile non interpretare il “whatever it takes” di Draghi come la promessa di non essere credibili, cioè di preferire, quando necessario, la discrezione alle regole.
A Palazzo Chigi molti potrebbero ritenere di poter vincere il contro Bruxelles, visti i precedenti: è improbabile che la Bce non farebbe nulla per salvare uno stato membro, e membro fondatore, anche da una crisi autoimposta. Un fallimento sovrano o l’uscita dall’euro sarebbero disastrosi, producendo effetti fiscali, finanziari e di riorganizzazione delle catene del valore transnazionali difficilmente valutabili. La seconda opzione, poi, equivarrebbe a uscire dall’UE, non essendo previsto un modo legale di uscire dall’eurozona. Dalla parte dell’Ue c’è che oggi un contagio sia meno probabile: non è un vero gioco del pollo quando un’utilitaria corre contro un carrarmato. Ma quanto gli stati membri e i mercati finanziari dell’eurozona siano robusti, e quanto ciò dipenda dalla credibilità del “whatever it takes”, è difficile da valutare. La strategia potrebbe ricordare le donchisciottate di Varoufakis: ma l’economia greca era un’utilitaria contro un carrarmato, quella italiana del 2010 no, e la situazione attuale potrebbe non essere cambiata a sufficienza.
Questa interpretazione porrebbe il governo gialloverde in continuità, sebbene in forma estrema, con i precedenti: dagli “eurobond” di Tremonti al piagnisteo renziano sulla flessibilità, l’Europa è vista da tutti come un parente ricco ma scemo a cui spillare quattrini. In Italia non ci sono veri europeisti e veri antieuropeisti: tutti si incontrano in un “euro-opportunismo” per cui l’Europa serve a coprire i costi del consenso interno. E’ ciò che gli italiani vogliono: la perpetuazione delle politiche della Prima Repubblica, nonostante l’esaurimento delle risorse fiscali necessarie a sostenerne assistenzialismo e clientelismo. A volte, esagerando, si ritiene che i gialloverdi siano nostalgici del ventennio fascista: è più verosimile che siano nostalgici del cinquantennio della Prima Repubblica, che, come ha spiegato l’illustre politologo Checco Zalone, “non si scorda mai”.
Se questa ricostruzione ha senso, il governo sta razionalmente testando la credibilità delle politiche europee, che è sempre stata scarsa, rischiando di finire con la propria Panda sotto i cingoli di un Leopard. In passato questa scommessa è stata vinta, concedendo a Renzi flessibilità o eccezioni ai bail-in, ma nessuno ha cercato finora di testarla in maniera così irresponsabile. Se la Germania cederà, l’euro diventerà la nuova lira; se non cederà, ci sarà un’altra eurocrisi, non grave come la precedente, e bisognerà dire addio al “sogno” di una “moneta per l’Europa”. “Sogno” che è già costato agli europei migliaia di miliardi di inefficienze allocative verso i paesi periferici, e che ha danneggiato la fiducia reciproca tra i paesi membri. Il governo ha il mandato popolare per ripristinare la Prima Repubblica, e per farlo ha bisogno che qualcuno dall’estero paghi il conto: è ciò che gli italiani vogliono, ma non ciò di cui avrebbero bisogno.