La seconda morte di Marchionne
Fiat e Ferrari, la politica come opportunità globale, il rapporto con il sindacato e l’impresa. Marco Ferrante ha aggiornato la sua biografia del grande manager. Che tuttavia per l’Italia è stato un’occasione mancata
“Marchionne. L’uomo dell’impossibile”: il titolo esprime in modo chiaro ed evidente il filo conduttore del libro di Marco Ferrante appena uscito per Mondadori che aggiorna ed estende la biografia pubblicata nel 2009. Nelle sue “prime conclusioni” l’autore pone due domande: “Che cosa resterà di lui nel fantastiliardico mondo dell’automobile” e che cosa resterà di lui in Italia. Il primo quesito ci porta a Carlos Ghosn, il quale partendo dalla Renault ha creato con Nissan e Mitsubishi uno dei primi gruppi mondiali, o a Lee Iacocca, il flamboyant capo della Chrysler il quale voleva fonderla con la Fiat già nel 1990. In ogni caso, Marchionne si è collocato lontano sia da Vittorio Valletta, “imbattibile funzionario e capo prefettizio di un’azienda autarchica”, sia da Cesare Romiti, “l’uomo della Fiat egemone”. Alla seconda domanda, l’autore risponde così: “E’ stato in Italia quattordici anni e in quattordici anni è stato un leader solitario”.
“E’ stato in Italia quattordici anni, e in quattordici anni è stato un leader solitario”. La diffidenza collettiva nei confronti della Fiat
Capovolgendo la scaletta del libro, partiamo proprio da qui. Chi era Sergio Marchionne e perché in Italia tutti (o quasi) hanno detto terribili cose su di lui? Questo è stato il suo cruccio: “Non ho mai capito – ha detto una volta – perché gli operai americani mi ringraziano per aver salvato loro la pelle, mentre quelli italiani la pelle vorrebbero farmela”. “L’Italia non ha sfruttato il caso Chrysler come un’opportunità di sistema. Anzi molti hanno affermato che l’acquisizione era servita solo ad allargare il perimetro Fiat per diluire i problemi dell’auto e che la fusione era una cessione mascherata agli americani. Ma la stessa incapacità di usare Chrysler come simbolo si era già verificata con l’acquisto di Endesa da parte di Enel e in generale con tutte le operazioni di affermazione delle imprese italiane all’estero, pensiamo a Luxottica, a Fincantieri, alla Finmeccanica, al gruppo Caltagirone e così via”. Non pensi che ci sia una profonda vocazione provinciale in una Italia che pensa a se stessa come al paese dove fioriscono i limoni, che si sente lontana dal resto del mondo? “C’è un elemento di provincialismo, ma c’è anche una questione specifica. Direi che resta un sostrato di diffidenza collettiva nei confronti della Fiat, che riguarda soprattutto la fase della Fiat egemone, quella romitiana. Poi c’è un elemento culturale profondo di fastidio nei confronti della grande industria. Dà lavoro, ma nella nostra cultura di massa è anche considerata matrigna e feroce. Vedi come viene trattato il dossier Ilva”.
“Ha puntato sulle energie interne delle grandi imprese, sulle opportunità offerte dalla crisi e sulle economie da consolidamento”
E’ l’eterna accusa alla Fiat che ha spremuto le finanze pubbliche. Che sia stata aiutata e anche assistita in particolare dagli anni Settanta del secolo scorso in poi, questo è indubbio. “Ha avuto molto in termini di sostegni diretti e indiretti e molto ha dato, perché nel nostro sistema industriale misto è stata uno strumento chiave per le politiche economiche e industriali dei vari governi, oltre che un fattore decisivo di occupazione e crescita produttiva. Ciò detto, il dibattito sulla contabilità dare/avere non mi ha mai appassionato”. E poi “l’ingrato Marchionne” e il cosmopolita Elkann l’hanno portata fuori dall’Italia. “In realtà, per entrambi l’Italia è stata importante, perché Marchionne era – nonostante il Canada e la Svizzera – un abruzzese affezionato alle sue origini, e per la famiglia Agnelli-Elkann la radice torinese resta ancora un fattore culturale e un valore d’impresa. Quanto alla polemica, la legislazione olandese, la quotazione a New York, la sede fiscale a Londra, tutto il processo di graduale allontanamento dall’Italia nasce dal modo in cui la nostra classe dirigente ha reagito a Marchionne”.
Tutta? Alla cerimonia funebre di Torino c’erano esponenti di Forza Italia e del Pd, non c’era il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, né qualche suo emissario, non c’era nessuno della Lega. “Il governo attuale avrebbe fatto bene a partecipare con una testimonianza. Tendono a non volersi associare all’establishment, neanche in una cerimonia di commemorazione. Un giudizio sul rapporto tra l’attuale governo e Marchionne però è impossibile. Non ha avuto a che fare con Marchionne, è troppo recente”.
“Il processo di graduale allontanamento dall’Italia nasce dal modo in cui la nostra classe dirigente ha reagito a Marchionne”
Non direi. La Lega è sempre stata anti Fiat, quella di Umberto Bossi come quella di Matteo Salvini. Un po’ per un certo sciovinismo meneghino (ancora oggi non viene perdonata l’acquisizione dell’Alfa Romeo) un po’ perché rappresenta il popolo delle partite Iva. Il Movimento 5 stelle ha una ideologia antindustriale e contraria al capitalismo privato, tanto che ora vuole rilanciare le nazionalizzazioni. Per entrambi Marchionne è stato un avversario. “Questo è vero. Però io penso che questa estraneità venga da più lontano. Viene appunto dalla difesa dei piccoli imprenditori del nord-est, non solo leghista, come se gli interessi dei piccoli fossero automaticamente in contrapposizione a quelli dei grandi (cosa che io non credo), soprattutto a quelli della Fiat. Viene dalla reazione antiromitiana della Confindustria di Antonio D’Amato e dalla successiva radicalizzazione dello scontro grandi/piccoli tra gli imprenditori. Viene da un generico neo-borbonismo di quel pezzo di Mezzogiorno che ce l’ha per principio con la grande impresa del nord. I trascorsi della Fiat (le commesse pubbliche, gli aiuti sull’Alfa Romeo, il protezionismo – non solo italiano – degli anni Settanta e Ottanta, la rottamazione) continuano a pesare. In una intervista rilasciata alla Stampa quando Marchionne era già in coma, Matteo Renzi ricorda che quando nel 2015 concesse incentivi per tenere in Italia la produzione della Urus, il suv della Lamboghini (che appartiene al gruppo Volkswagen) Marchionne lo rimproverò: “Per la Fiat questo lei non lo ha mai fatto”, gli disse. Renzi rispose: “Dottore, alla Fiat lo scomputiamo dal passato”. E Renzi non era ostile a Marchionne. Ecco, mi sembra che qui ci sia in estrema sintesi l’atteggiamento della politica degli ultimi venticinque anni nei confronti della Fiat. Fare attenzione a non sembrare dei fiancheggiatori di Torino”.
Si poteva davvero trattenere la Fiat? Bisognava assisterla, proteggerla ancora? E il mercato? “Non si trattava di assisterla. Semplicemente di negoziare. Tutti i paesi industrializzati cercano di tutelare i loro campioni nazionali, lo fanno gli Stati Uniti da sempre, ben prima di Donald Trump. Quando l’ultimo governo di centrodestra in Italia chiuse la fase della rottamazione, segnò una rinuncia implicita alla possibilità di condizionare la Fiat”.
Si poteva davvero trattenere la Fiat? “Si trattava di negoziare. Tutti i paesi industrializzati cercano di tutelare i loro campioni nazionali”
Dagli errori della destra a quelli della sinistra. Lo scontro con la Fiom è stato l’emblema dell’Italia che non vuole crescere né modernizzarsi. “La decisione della Fiom di investire tutta la sua soggettività in un gioco di opposizione poteva essere l’incentivo conclusivo, determinante al disimpegno della Fiat dall’Italia. Ricordiamo che con l’eccezione di rare sponde politiche, imprenditoriali ed editoriali (questo giornale per esempio), alla battaglia con la Fiom Marchionne c’è andato da solo. Così come era andato da solo alla trattativa con General Motors e – soprattutto – alle operazioni Opel e Chrysler. Il successo americano non è stato programmato né sostenuto dal sistema italiano; è stato il successo estemporaneo di un capo azienda che ha intercettato le richieste del governo americano, e che con l’amministrazione americana ha trattato da nordamericano più che da italiano”.
E qui veniamo a Marchionne come capo azienda. Qual è il segreto del grande salvatore, di Super Sergio come lo chiamavano? “Lui diceva che l’unico segreto era fare tutti i giorni le cose necessarie. Però uno schema c’era. Ha puntato sulle energie interne che si nascondono nel corpaccione delle grandi imprese, sulle opportunità che la grande crisi gli ha prospettato, e sulle economie da consolidamento. Tre linee di condotta che ha seguito sia alla Fiat sia alla Chrysler, sia nel rimodellare l’intero gruppo, perché deve essere chiaro che Marchionne ha costruito qualcosa di nuovo”.
Tu dici che per lui la politica era meno importante rispetto ai suoi predecessori, Valletta e soprattutto Romiti. Eppure senza il favore di Barack Obama non avrebbe mai potuto comprare la Chrysler e non pagare nemmeno un centesimo, utilizzando gli aiuti federali e i fondi del sindacato. “No, dico solo che ha utilizzato la politica come opportunità globale. In tempi di super competizione internazionale gli stati offrono opportunità in concorrenza tra loro per attrarre investimenti. Poi c’è la sua capacità di costruire rapporti. Con Obama c’è stato senza dubbio un grande feeling. E’ sembrato che ci fosse anche con Trump. Paradossalmente, ma non tanto: perché ha aumentato l’occupazione e i salari negli impianti americani. E poi non bisogna dimenticare che la Chrysler nel 2009 era finita, morta. Così come la Fiat nel 2004. Marchionne ha preso dei cadaveri e li ha fatti risuscitare, creando da loro qualcosa di molto diverso”.
Sembra il dottor Frankenstein. “La creatura di Marchionne nasce anch’essa da un esperimento. Elkann lo ha ricordato dicendo ‘ci ha insegnato a non aver paura e a cercare qualcosa di nuovo, a pensare in modo diverso’. La differenza con Frankenstein è che non ha creato un mostro”.
“Con la Ferrari ha compiuto una di quelle operazioni che gli facevano guadagnare una specie di affetto da parte del mercato finanziario”
Ma un camaleonte industriale, questo sì: Fca sta cambiando ancora pelle, in base al piano che Marchionne ha lasciato in eredità alla proprietà e ai suoi successori. “Non so che cosa accadrà adesso, vedremo. Con Mike Manley è stato scelto il manager che ha rilanciato la Jeep portandola a un grande successo di mercato, da 300.000 a quasi 1,5 milioni di auto l’anno. E con c’è dubbio che la strategia di fondo si deve a Marchionne. Prima ha rimesso in sesto le imprese, poi ha disegnato un nuovo assetto che punta sui marchi da valorizzare. In questo è stato aiutato probabilmente dal suo non essere ingegnere. Paolo Cantarella, ingegnere e grande uomo di produzione, aveva una impostazione totalmente concentrata sui modelli. Ha progettato e fabbricato grandi vetture, ma con scarso successo commerciale”.
La Fiat negli anni Novanta ha fatto ingenti investimenti che si sono trasformati in colossali perdite. Marchionne ha tratto lezione da quegli errori. “Il suo ultimo manifesto strategico, le ‘Confessioni di un drogato di capitale’ del 2015, molto apprezzato dai suoi ammiratori e fan finanziari, offre una prospettiva all’intera industria dell’auto. E’ stato un campanello d’allarme, lo hanno letto e studiato tutti i grandi capi dei maggiori gruppi e spesso ne hanno tratto le conseguenze. Oggi ci vogliono immensi capitali per rinnovare le tecnologie automobilistiche (pensiamo agli investimenti per l’auto elettrica), e le sinergie maggiori (e quindi i risparmi più ampi) si possono fare mettendo insieme ricerca e sviluppo, non solo semplificando le piattaforme e fondendo gli impianti di assemblaggio, come avveniva nella fase dell’industria di massa”.
Eppure Marchionne ha continuato a essere critico sull’auto elettrica e non ha mai capito la rottura tecnologica introdotta dai giapponesi della Toyota con l’ibrido. Ciò vale persino nella Formula 1. E’ uno dei segreti del vantaggio della Mercedes rispetto alla Ferrari. “Alla Formula1 ci arriviamo tra un attimo. E’ vero, c’è stato un ritardo della Fiat, ma è stata una scelta consapevole. Marchionne sapeva di non avere i mezzi e s’è tenuto per così dire alla finestra, ha aspettato di vedere cosa facevano gli altri per poi mettersi in fila”.
Però Marchionne non ha vinto nessun titolo, credo che sia stato uno dei suoi maggiori rammarichi. “Visto che hai reintrodotto la F1, diciamo intanto che la Ferrari oggi è di nuovo competitiva, e il mondiale di quest’anno non arriverà per gli errori compiuti dai piloti, soprattutto Sebastian Vettel, ma bisogna tener conto che si tratta comunque di un grande circo nel quale contano circostanze specifiche, dettagli a volte, direi anche la fortuna. Ma con la Ferrari, Marchionne ha compiuto un’altra di quelle operazioni che gli facevano guadagnare una specie di affetto da parte del mercato finanziario”. Intendi lo scorporo? Certo, oggi in Borsa la Ferrari vale più di tutta la Fca. “Sì, un grande successo. In pochissimo tempo il valore del titolo schizzò, non come quello di un titolo automobilistico paragonabile per prestigio, ma come un titolo del lusso (il punto di riferimento è Hermès)”.
Le sue incompiute: la debolezza in Cina e in Asia, il matrimonio fallito in tre occasioni, con Opel, con Peugeot e con General Motors
Con tutta l’energia riposta nei marchi e nei sottomarchi, Jeep, Ram, 500, il risultato sarà la morte di Fiat e Chrysler. “Probabilmente sì, o comunque saranno sempre più confinati a prodotti di base. Ma come brand già in qualche misura non esistevano più. Un’operazione sui marchi, la Fiat di Marchionne (e Montezemolo) l’aveva avviata anche con Maserati e Alfa Romeo, il cosiddetto polo del lusso, però non è ancora riuscita”.
Tra le sinfonie incompiute di Marchionne c’è la debolezza in Cina e in Asia e il mancato matrimonio, tenacemente perseguito e fallito in almeno tre occasioni: Opel in Germania, Peugeot in Francia e General Motors negli Stati Uniti. “Le cose vanno di pari passo. Una posizione di mercato significativa in Asia oggi la si può raggiungere solo insieme ad altri, come dimostra anche il caso Renault. I tre tentativi di matrimonio sono storie diverse. Nel caso Opel la Fiat ha combattuto da sola contro il complesso politico-industriale tedesco, senza il sostegno del governo né del sistema Italia. Con Peugeot probabilmente ha pesato il capitalismo familiare francese che temeva il confronto con i cugini italiani. La grande sfida era la suggestione della fusione con General Motors”.
E il figlio del carabiniere è stato sconfitto da Mary Barra, la figlia di un operaio italo-americano. “Già. Era senza dubbio un grande azzardo. Non ho informazioni dirette, ma penso che sia stato ritenuto eccessivo anche dalla proprietà”. Da John Elkann? “Dall’insieme degli azionisti e anche dalla famiglia Agnelli-Elkann”. Che Marchionne ha arricchito ancora di più, facendo lievitare il capitale di ben dieci volte. Elkann non finisce mai di celebrarlo. Qual è stato il loro rapporto? “L’azionista è stato rispettoso delle scelte del general manager. E il manager ha realizzato una tale improcrastinabile operazione di salvataggio da rendere il rapporto fortissimo. Proprietà e gestione hanno mantenuto una certa autonomia. E poi c’era una grande distanza anagrafica che rendeva tutto più facile. Non c’era un elemento di competizione, Marchionne sarebbe andato via l’anno prossimo e sarebbe cominciata la fase piena di John Elkann”.
E con Montezemolo? Tra loro con c’erano affinità elettive. “Non è solo una questione di alchimia personale, ma di storia, una diversità anche antropologica. Con Marchionne si sono rispettati, ma mai amati, troppo diversi. Eppure sono stati complementari nei primi anni di convivenza. Litigarono sulla Ferrari, sulla quotazione. Lo ha ricordato Montezemolo in una lunga intervista a Quattroruote di questo mese. La verità è che la Ferrari era anche un terreno di potere, influenza, mediaticità. Marchionne non voleva più lasciare quello spazio”.
Il rapporto con Elkann: “Proprietà e gestione hanno mantenuto una certa autonomia”. E quello difficile con Montezemolo
Nel 2011, l’anno della grande crisi del debito, quando l’Italia stava per fallire e l’euro per crollare, Marchionne ingaggia la battaglia politicamente più dura: esce dalla Confindustria e rilancia la sua sfida alla Fiom. “Non era solo la Fiom. E’ stata Susanna Camusso, segretario generale della Cgil a minacciare il ricorso alla magistratura. Marchionne vince a gennaio il referendum sul nuovo contratto e sulla nuova organizzazione del lavoro a Mirafiori così come aveva vinto a Pomigliano d’Arco nel giugno 2010. Senza dubbio Pomigliano e Mirafiori sono stati il momento più politico nella parte italiana della vita di Marchionne. Prima aveva accettato l’etichetta di manager socialdemocratico che gli era piovuta in testa un po’ per caso, quando nel 2007 concesse un anticipo sul rinnovo contrattuale. Successivamente ha tirato fuori la sua natura reale di capo pragmatico, di cultura nordamericana, meritocratica e liberale, ma disponibile a servirsi degli strumenti che l’economia e la politica mettono a disposizione… Per esempio, la Grande crisi e l’opportunità individuata insieme a Obama”.
Quella opportunità che in Italia è mancata. In tutto il libro parli di solitudine e di incomprensione. Fino all’ultimo. Anche la sua malattia è stata fonte di polemiche e di accuse. “In Italia, il ceto sociale e imprenditoriale che avrebbe dovuto seguirlo non l’ha fatto… Poi c’è anche una questione più romantica legata ai singoli uomini al comando. La leadership è comunque una storia di solitudine, con tutta la relativa densità di ore più buie, come il titolo del film su Churchill. Quanto alla sua morte, voleva tutelare la sua privacy di malato. Però è vero, c’è una suggestione nel modo in cui se n’è andato. Una morte improvvisa, anticipata da una malattia di cui nessuno sapeva nulla, molto metafisica per come l’opinione pubblica ne è venuta a conoscenza. Un’imprevista assenza si prolunga nella morte. Marchionne era una persona difficile da inquadrare e se n’è andato in un modo difficile da inquadrare. Ha tenuto nascosta la sua malattia, perché temeva l’anticipazione del suo avvicendamento o perché pensava di riuscire a vincere la malattia? Tenderei per la seconda opzione, però l’incertezza che lascia è coerente con la sua vita un po’ filosofica e comunque rimasta misteriosa, sospesa tra queste sue origini metà abruzzesi e metà istriane e il cosmopolitismo del rapporto con due presidenti americani e con il complicato, esigente establishment svizzero. Quanto all’Italia è come se in questi venticinque anni abbia fatto di tutto per non cogliere le buone occasioni: non solo non le sfrutta, ne è quasi irritata. Marchionne è stato un’occasione mancata”.