Così si azzoppa un'economia in ripresa e si mettono a repentaglio i conti pubblici
Il 2,4 per cento è più di un numero. E non può essere ignorato: significa fregarsene (non dell’Europa) ma del debito e di una strategia per crescere
L’annuncio del governo Conte che il prossimo programma economico della nazione si baserà per il triennio 2019-2021 su un rapporto deficit/pil del 2,4 per cento è assolutamente sconcertante. Specie considerando che l’Italia è un paese che, perfino con il Quantitative easing ancora a pieno regime, ha pagato nel 2017 la bellezza di 65,5 miliardi di interessi annui sul debito pubblico, pari al 3,8 per cento del pil. E che, sempre nel 2017, l’Italia ha avuto un deficit/pil del 2,4 per cento (come quello che i legastellati vorrebbero fare continuativamente nei prossimi tre anni) esclusivamente perché lo stato italiano ha salvato i risparmi e i posti di lavoro delle banche in crisi, altrimenti il deficit/pil già lo scorso anno sarebbe stato dell’1,9-2 per cento, cioè in netta discesa rispetto al 2016.
Per contro, senza sapere ancora quale sarà il reale disavanzo finale del 2018, il prossimo deficit/pil triennale del 2,4 per cento, ostentatamente festeggiato sul balcone di Palazzo Chigi dal vicepremier Luigi Di Maio e dalle prime linee grilline, rappresenta una arrischiata inversione di marcia. Significa tornare inesorabilmente indietro, perché l’obiettivo di deficit compatibile con i nostri impegni europei di riduzione del rapporto debito/pil avrebbe già dovuto essere dell’1,6 per cento nel 2018 e addirittura dello 0,8 per cento nel 2019. Ora, ipotizziamo pure che, in una logica di flessibilità trattata e condivisa con Bruxelles, si sarebbe potuto chiedere alla Commissione europea di rimanere all’1,6 per cento anche nel 2019. Probabilmente con un po’ di ragionevolezza e diplomazia lo si sarebbe potuto fare, permettendo così alla ripresa di consolidarsi e conseguendo un ulteriore calo del debito/pil, in linea con quanto avvenuto nel triennio 2015-17.
Invece, con le anticipazioni della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza 2018 (NaDef 2018) si è deciso di sfidare non soltanto l’Unione europea e i mercati ma anche ogni logica economica, fissando un insostenibile deficit triennale del 2,4 per cento che cumulativamente aggiungerà oltre 100 miliardi allo stock del nostro debito pubblico senza alcuna sicurezza che il pil nominale possa nel frattempo crescere in eguale misura (il che permetterebbe perlomeno di mantenere costante l’attuale debito/pil). Anzi, con il deficit triennale ipotizzato dal governo vi è la matematica certezza che il rapporto debito/pil crescerà. Infatti, solo una minima parte del disavanzo programmato, nonostante le dichiarazioni rassicuranti del premier Conte e del ministro Tria, potrà essere destinata ad investimenti ad alto moltiplicatore. Per cui sono del tutto evanescenti le speranze che il pil reale italiano possa accelerare stabilmente al 3 per cento, come ipotizzato dal ministro Savona in un suo intervento sul Fatto Quotidiano (nemmeno gli Stati Uniti stampando moneta ci riuscirebbero), e che il nostro pil nominale possa conseguentemente addirittura volare intorno al 4,5-5 per cento annuo (assumendo un deflatore compreso tra l’1,5 e il 2 per cento). L’unica cosa certa, purtroppo, è che in Italia con il programma giallo-verde si moltiplicherà solo il debito e non il pil.
Anche perché ci troviamo di fronte ad un evidente rallentamento dell’economia italiana rispetto a quanto ipotizzato dallo stesso Documento di economia e finanza 2018 varato il 26 aprile scorso da Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan. Infatti, a tutto giugno 2018 il pil italiano grezzo nominale degli ultimi dodici mesi “scorrevoli” stava crescendo soltanto del 2,4 per cento rispetto al pil dei dodici mesi terminanti nel giugno 2017, mentre la crescita nominale ipotizzata per l’anno in corso dal Def Gentiloni-Padoan era del 2,9 per cento. Dirottando gran parte del deficit a congelare l’aumento dell’Iva (cosa ragionevole) e al varo di misure assistenziali-clientelari (queste, invece, di assai dubbia efficacia), e considerato altresì tutto il resto dello scenario, è perciò impossibile che il governo legastellato possa assicurare con la rimanente quota del disavanzo una crescita economica (tramite investimenti ad alto moltiplicatore) di portata tale da abbattere il debito/pil. Al contrario, il vero rischio dell’Italia è che nei prossimi tre anni il nostro consistente storico avanzo statale primario (che ha sempre rassicurato gli investitori esteri) possa scendere dall’attuale 1,4 per cento sotto la soglia dell’1 per cento. Il che, senza che sia più in funzione il Qe di Draghi, ci esporrebbe ad una crescente ondata di sfiducia e ad un aumento dei tassi che brucerebbe in automatico le (poche) risorse destinate realmente alla crescita.
Il programma economico del nuovo governo che emerge dalle prime anticipazioni della NaDef 2018 appare dunque piuttosto velleitario rispetto agli obiettivi sperati di crescita e allo stesso tempo estremamente oneroso per i conti pubblici. Ed è illusorio pensare, come vaneggiano alcuni, che eventuali nuovi buchi di bilancio possano essere colmati con la ricchezza privata degli italiani perché essa, pur rilevante, è già ampiamente utilizzata dalle famiglie in modo diretto e soprattutto in modo indiretto (tramite le banche e il sistema finanziario dove è investito il risparmio) per sostenere il mondo produttivo e per comprare una ingente mole di titoli di stato. Secondo la Banca d’Italia, infatti, a giugno 2018 il quantitativo di obbligazioni pubbliche finanziato con ricchezza interna italiana era pari a circa 920 miliardi di euro, cioè poco meno della metà del totale, essendo i rimanenti 1.044 miliardi di titoli finanziati da stranieri (per 664 miliardi) o collocati in pancia alla Banca d’Italia per conto della Bce (per 380 miliardi). La capienza del bacino del debito pubblico italiano, fin ad oggi sostenibile grazie ai nostri punti di forza (avanzo statale primario e ricchezza privata), è dunque chiaramente colma e non è più possibile andare oltre. Ignorarlo, come fa il NaDef 2018, significa portare il paese su un sentiero molto pericoloso.