I gialloverdi portano le banche al limite
Il settore del credito è sotto stress per le intemerate del governo. Quando il “popolo risparmiatore” si risentirà?
Roma. Da quando giovedì scorso il vicepremier Luigi Di Maio s’è affacciato trionfante dal balcone di Palazzo Chigi annunciando il piano per la legge di Bilancio, i prezzi delle azioni bancarie italiane sono calati di quasi il 10 per cento. Solo ieri i titoli bancari hanno recuperato perché il governo ha comunicato che il rapporto deficit/pil non sarà del 2,4 per il prossimo triennio, come prima annunciato, ma solo per il prossimo anno (al 2,1 nel 2020 e all’1,8 nel 2021). Le cifre sono state rivelate in serata durante la conferenza stampa per la presentazione della Nota di aggiornamento del Def. Non sorprende lo stress sui titoli di credito: le banche possiedono oltre un quarto del debito pubblico italiano, un livello alto per gli standard internazionali, e titoli di stato italiani rappresentano circa il 9 per cento del patrimonio delle banche. Di certo gli istituti sono in condizioni migliori rispetto al passato – sono meglio capitalizzate (il coefficiente patrimoniale (Cet1) è passato dal 6,9 per cento nel 2008 al 14,3 per cento nel 2017), le sofferenze diminuiscono e i depositi salgono – ma l’incertezza non ci voleva.
Uno dei problemi è che con un eventuale declassamento del merito di credito dello stato – i giudizi di Standard & Poor’s e Moody’s attesi questo mese – pur non a livello “junk”, ma poco sopra, il costo di finanziamento per le banche ne risentirà di conseguenza diventando più oneroso. E a quel punto non è da escludere del tutto che gli istituti di credito possano scaricare i costi sulla clientela sia in termini di maggiori tassi sui prestiti e sui mutui sia con commissioni più alte per erogare servizi.
Se questo sia un rischio concreto, il Foglio l’ha chiesto al presidente di Intesa Sanpaolo, Gian Maria Gros-Pietro, sabato scorso, all’indomani di una giornata burrascosa sui mercati successiva all’annuncio della dimensione del deficit contenuta nella Nota di aggiornamento del Def. “Questi livelli di spread (tra i 280 e i 300 punti, ndr) non riflettono la situazione reale dell’Italia e quindi si ridurranno e diventeranno più ragionevoli e più appropriati quando si conosceranno i contenuti reali della manovra – ha risposto il presidente della principale banca italiana – Il livello di deficit è una cornice e molto dipende cosa ci sarà all’interno della cornice: se l’aumento di spesa sarà tradotto in un aumento del consumo di beni e servizi prodotti in Italia questo farà da moltiplicatore al denominatore del rapporto deficit/pil e per questo resta importante la competitività delle produzioni italiane che noi sosteniamo con investimenti in innovazione”.
E’ tuttavia difficile che con una maggiore spesa corrente finanziata in deficit si ottenga automaticamente una spinta dei consumi. Per il M5s il reddito di cittadinanza strombazzato in campagna elettorale è diventato una social card per consumare beni su suolo italiano dal costo di 10 miliardi per lo stato, pari al bonus in busta paga renziano. Vecchia formula con nuovi slogan. Ieri Istat ha comunicato che nonostante un aumento del reddito disponibile nel secondo trimestre 2018 (più 1,3 per cento rispetto ai tre mesi precedenti) i consumi sono rimasti fermi (più 0,1 per cento). Intanto la ritrosia nel fare acquisti da parte delle famiglie non pare un attestato di fiducia all’azione di governo: l’incertezza sul futuro contribuisce a intimidire i consumatori. Si vedrà quale sarà la cornice della manovra. Per ora, si può scommettere che a salire sono sia il debito pubblico sia il costo per finanziarlo sulla scorta delle preoccupazioni sulla qualità del processo decisionale del governo che spingeranno all’insù i rendimenti obbligazionari per un periodo prolungato. Le banche avrebbero difficoltà a finanziarsi sul mercato e le condizioni di credito più restrittive peserebbero sulla capacità delle imprese competere, e si tornerebbe a parlare di come ridurre i prestiti in sofferenza. Fortunatamente i correntisti bancari non sembrano impensieriti dalla ridondante messa in discussione della permanenza nell’area euro da parte del governo Lega-M5s. Se così fosse, come nota Paul Donovan, capo economista di Ubs Wealth management, “gli italiani non sembrano pensare che l’idea sia credibile, se lo avessero fatto la risposta logica sarebbe stata una fuga di depositi, e questo non si vede”. In tal caso le banche sarebbero più caute nel concedere prestiti, aggiungendo seri guai economici ai problemi politici.