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L'euro spiegato ai sovranisti

Annalisa Chirico

“Essere in grado di onorare il debito è cruciale. I mercati non sono speculatori". Globalizzazione, peronismo, Di Maio, Salvini, la Cina. Parla Giulio Tremonti

Roma. “La storia le sta dando ragione?”. “Ditele che sono uscito”, risponde lui. Dalla finestra si odono le note della Danza ungherese di Brahms, il violinista di piazza Navona suona senza sosta, e Giulio Tremonti si muove come un direttore d’orchestra, cammina avanti e indietro, perlustra gli angoli della sala affrescata dell’Aspen Institute, da lui presieduto. L’Italia è il primo paese europeo con un governo composto interamente da forze populiste, un populista ante litteram come lei dovrebbe essere contento. Non è così. “Dell’Italia non parlo. Per la verità, mi definisco più populista che sovranista”.

  


“Il sovranismo è opposizione: gli stati nazione nutrono interessi contrastanti. Economici e non solo. Ricordate la Germania?”


 

“Io – continua Tremonti – credo nella ragione dei popoli in opposizione all’assolutismo del mercato e all’attuale demenza di questa Europa”. Potrebbe essere il manifesto di Matteo Salvini e Luigi di Maio. “Scrivo queste cose da vent’anni. Pur non essendo passato dall’ufficio brevetti, ho coniato di sana pianta la parola ‘mercatismo’ riferita a certi eccessi ideologici: Mario Monti osservò che non esisteva nel vocabolario, infatti l’avevo appena inventata”. Persino Matteo Renzi ha preso in prestito un’espressione tremontiana, “Aiutiamoli a casa loro”. “La legge tuttora vigente sull’immigrazione l’ho scritta nel 1999, con una relazione introduttiva relativamente suggestiva, e il titolo dell’articolo uno era ‘Aiutiamoli a casa loro’. Due anni dopo, al governo il tema era piuttosto ignorato, abbiamo proposto in Europa l’idea della De-Tax: se tu compri un paio di scarpe in un negozio impegnato in una rete di solidarietà, un punto di Iva sarebbe stato rinunciato dall’Europa se destinato all’Africa via volontariato. L’Europa respinse il progetto restando fissa sul suo modello fallimentare: se pensi di finanziare lo sviluppo sovvenzionando i governi, quei soldi te li ritrovi in armamenti o in Svizzera”. Dalla crisi della finanza alle migrazioni di massa, dalle macchine digitali rubalavoro alla “dis-Unione europea”: lei si può considerare un pioniere sulle grandi questioni che hanno segnato la fortuna dei populisti. “Temo che la storia ci stia dando ragione. In ogni caso, a osservare quel che accade, si può dire che si tratta di un ascolto ritardato”. Oggi la questione migratoria domina l’agenda politica. “Si tratta di un fenomeno epocale che riguarda non solo gli individui ma anche i popoli e i continenti. Lei ha presente la storia del paradiso terreste? Può credere alla mela di Adamo ed Eva oppure può prendere in considerazione la tendenza millenaria dei popoli a spostarsi alla ricerca di migliori condizioni di vita. Tenga conto che le leggende millenarie hanno sempre un fondamento. Nel 1995 ne ‘Il fantasma della povertà’ sostengo che la televisione, trasmettendo in Africa le immagini del nostro benessere, avrebbe spinto milioni di persone a tentare la traversata verso le coste europee. Il problema non è tanto che noi siamo pochi e loro sono molti: gli europei invecchiano mentre l’altro continente è in crescita e giovane. Il lato tragico del fenomeno non riguarda comunque solo i giovani che arrivano ma anche gli anziani che rimangono in Africa. Se incentivi gli arrivi, sei buono ma solo fino a un certo punto perché distruggi il mondo di partenza, e poi non lamentarti se in quel mondo desolato si sviluppa il jihadismo”.

  


  “Governo nazionale, ideologie, spesa pubblica: la democrazia per come l’abbiamo conosciuta per mezzo secolo ha smesso di esistere”


   

Partiamo da lontano, professore, poi magari arriviamo all’Italia. Nel suo ultimo libro “21 lezioni per il 21esimo secolo”, lo storico Yuval Noah Harari afferma che il liberalismo, uscito vittorioso dallo scontro ideologico con il comunismo nella seconda metà del Novecento, oggi è in ritirata nel mondo intero, e la visione sovranista potrebbe soppiantarlo. “Non mi appassionano certe visioni semplificate, la storia ha un respiro più complesso”. Nel libro ‘Rischi fatali’ del 2005, lei scrive che comunismo e liberalismo hanno perso entrambi. “Il primo perché era un’utopia folle, il secondo perché si è, a sua volta, trasformato in una fede assoluta. La beffa della storia è che la sconfitta del comunismo inizia quando, a partire dalla metà degli anni Settanta, dilaga nel mondo. Si pensa che stia vincendo, in realtà è destinato a soccombere: nel 1975 l’Occidente organizza la riscossa a Rambouillet”. Il 15 novembre di quell’anno, in un castello a cinquanta chilometri da Parigi, i leader dei sei maggiori paesi industrializzati, Italia inclusa, danno vita a quello che sarebbe diventato il primo club esclusivo delle grandi potenze, il G6. Secondo l’Economist, che lei forse non apprezza, il cleavage politico contemporaneo è tra apertura e chiusura, tra chi costruisce ponti e chi vuole abbatterli. “Questa mi pare che sia scritta più sulle Scritture che sull’Economist”, il prof sogghigna. “Io non seguirei questi schemi binari”. La democrazia contemporanea è in crisi, e non è chiaro quale sia la via d’uscita. Servono nuovi leader? “‘Crisi’, in greco, vuol dire rottura, queste fasi non vengono superate attraverso singole individualità carismatiche, di per sé incapaci di riflettere lo spettro di società complesse, ma attraverso l’azione di entità collettive. Il singolo è fragile, persino Mussolini stava in piedi ma con il re e con l’establishment. Nel futuro vedo qualcosa di simile a Camaldoli”.

  

Nel luglio del ‘43, sotto la guida dell’allora monsignor Giovanni Montini, un gruppo di giovani intellettuali cattolici si riunì nell’eremo aretino per porre le basi del futuro governo italiano, sebbene il paese fosse ancora sotto dominio fascista. Tra loro spiccavano Aldo Moro, Giorgio La Pira, Giulio Andreotti… il confronto con l’attuale classe dirigente è stridente. “Non conosco i giovani di oggi, credo che debbano fare esperienza”. A suo giudizio, se ho ben compreso, sovranismo e globalismo non rappresentano la battaglia ideologica del XXI secolo. “La realtà non si costringe in questa dialettica. In ogni caso, credo che il sovranismo può esistere in singoli stati ma non può essere l’ideologia che unifica un aggregato di stati. Può essere un’unione temporanea ma, come dice il nome stesso, subito dopo, per esempio vinto il nemico comune, ogni sovranista si rivolterà contro l’altro. Se qualcuno considera il sovranismo come un’ideologia uniforme, forse dimentica che Germania e Francia, entrambi stati nazione, si sono fronteggiati in tre guerre nel corso di cento anni, non mi pare che avessero in comune molti elementi unificanti…”. Seguendo il filo del suo discorso, l’Internazionale sovranista è una contraddizione in termini. “Il mercatismo è stata l’ultima ideologia del Novecento, adesso in via di dissoluzione. Ammesso che si possa ritenere un’ideologia, il sovranismo comporta in sé un’elevata probabilità di conflitti. Gli stati nazione possono mettersi insieme contro un nemico comune. Oggi è ‘questa’ Europa, ma domani?”. Sulla scrivania è riposta una copia di Repubblica di qualche giorno fa, il prof tiene un segnapagina in corrispondenza della recensione al saggio che il politologo Jan Zielonka indirizza, nella forma di una lettera aperta, al suo maestro scomparso Ralf Dahrendorf. Il titolo è “Chi ha lasciato senza difese la democrazia”: secondo l’autore, i populismi europei di oggi derivano dagli errori compiuti per decenni dalle élites. “Non è tanto che esista la colpa di un ‘chi’, è piuttosto innegabile che la democrazia, come l’abbiamo conosciuta per mezzo secolo, è entrata in crisi per ragioni oggettive più che soggettive. I tre pilastri su cui si è fondata per oltre cinquant’anni – governo nazionale, ideologie strutturate, spesa pubblica – si stanno sgretolando. La democrazia nasce prima per tutelare i diritti, e poi per delegare i governi a governare i problemi. A lungo, i problemi da governare hanno avuto origine domestica e dimensione limitata, perciò sono stati governabili. Oggi i problemi hanno origine esterna e dimensione che sovrasta le capacità dei singoli governi nazionali, dalle migrazioni alle macchine rubalavoro. Se un governo non ha i mezzi per governare, cade la fiducia, e non la ricomponi neppure inventando i premi di maggioranza. Passando al secondo pilastro, se in passato la parola ‘socialista’ o ‘popolare’ identificava un vasto apparato di idee, princìpi e prassi attorno a cui si organizzava un partito strutturato e permanente, nel mondo di oggi le ideologie si sono dissolte, e certo non rinascono sulla Rete. Terzo, il dopoguerra è stato il secolo del debito pubblico, un fatto politico, non finanziario (guai a dimenticare che i debiti hanno fatto saltare i nobili di Francia, per intendersi). Con la spesa pubblica acquisivi consenso e riducevi i conflitti; oggi il deficit spending non è più uno strumento che ti garantisce consenso, all’opposto può essere causa di dissenso. Governare spendendo è un conto, governare riducendo il debito è un’altra cosa. Si comprende in questi termini che il mondo è profondamente cambiato: un’oscura e imperscrutabile maledizione si è abbattuta sui nostri campi? Un qualcosa di esterno, assoluto, rispetto al quale siamo tutti irresponsabili? Fatalità, casualità? E’ la storia che sta facendo una curva. Nel luglio del 1989, anno bicentenario della Rivoluzione francese, ho scritto un articolo sul Corriere della sera dal titolo ‘Una rivoluzione che svuota i parlamenti’ (il muro di Berlino sarebbe crollato a novembre). La mia previsione sembrava allora un po’ strampalata ma era questa: come nel 1789 si sono costruite le prime moderne ‘macchine’ politiche, assembleari e parlamentari, così nel 1989, due secoli dopo, queste si sarebbero progressivamente svuotate con la controrivoluzionaria erosione del potere dello stato nazione. Si stava spezzando la catena politica fondamentale, stato-territorio-ricchezza: lo stato controllava ancora il territorio ma la ricchezza se ne stava staccando”.

  


“Cosa serve all’Europa? Eurobond e fondi privati sui mercati per costruire una difesa con una solida industria militare”


    

Lei è stato tra i primi fustigatori dei mercati globali. “Nel ‘95, in controtendenza rispetto all’entusiasmo collettivo per l’avvento della fantastica globalizzazione, ho scritto con Edward Luttwak un libro intitolato ‘Il fantasma della povertà’: lui parlava di turbocapitalismo, io di ‘fantasma della povertà’. Dopo la crisi, diciamo che siamo due a uno, palla al centro”. Tanto basta per abbracciare il paradigma della chiusura? “Io non mi riconosco, ripeto, nello schema binario sovranismo vs globalismo, un’alternativa esiste e la trovi negli esempi della storia. Le pongo io una domanda: andando indietro nel tempo, gli anni Ottanta e Novanta si possono forse qualificare come mercatisti? Davvero si può ridurre il liberalismo alla fede cieca nel mercato? Forse Margaret Thatcher, la signora delle Falkland, era una globalista? E Ronald Reagan prendeva ordini dai banchieri come Bill Clinton? Thatcher e Reagan erano fautori convinti del capitalismo ma nessuno dei due era globalista. La storia è più complessa di come qualcuno vorrebbe far credere. Assistiamo indubbiamente a una riduzione della globalizzazione ma questo fenomeno investe la sua dimensione ideologica: l’apparato simbolico e di costume ne esce ridimensionato, non quello economico”. In altre parole, l’ideologia globalista è in crisi ma l’economia resta globale. Ne ‘La paura e la speranza’ lei si sofferma sui contraccolpi sociali del mondo globale: si va a Londra con venti euro ma ne servono almeno il doppio al supermercato, abbiamo i cellulari ma non abbiamo più i bambini. “La deglobalizzazione ideologica non è riuscita a rompere il legame con il retroterra di tradizioni, simboli e valori più o meno arcaici nei quali i popoli, le famiglie, le persone s’identificano”. Lei sembra fiducioso nel futuro, nessun cataclisma sovranista all’orizzonte. “Le ripeto: la storia segue dinamiche più complesse. Io non credo che il mondo si dissolva nello scontro tra sovranismo e globalismo. E’ prevedibile, forse dopo un lungo periodo di crisi, un nuovo equilibrio tra mercato e nazioni, com’era per esempio negli anni Ottanta”. Il paradosso sovranista emerge sul dossier immigrazione: il gruppo di Visegrad, Ungheria in testa, respinge la logica dei ricollocamenti, in nome dell’interesse nazionale e a scapito dell’Italia. “E quale sarebbe il ‘paradosso’? I manuali di storia, che circolano nelle scuole austriache, sono d’impronta anti-italiana perché ci rinfacciano ancora l’aggressione contro l’impero austro-ungarico. In polacco ‘tedesco’ si dice ‘niemiecki’, l’Ungheria è un paese senza barriere geografiche definite, in questi casi i confini diventano mentali, e perciò ancora più forti. Se gli ‘illuminati’ avessero letto qualche libro di storia, forse avrebbero compreso le ragioni per cui molti, incluso chi parla, erano contro l’allargamento istantaneo verso est”. Per i sovranisti l’Europa è l’Arcinemico. La domanda è: “quale” Europa? “Tre idee di Europa. Prima, il manifesto di Ventotene del 1941, spesso citato a vanvera da persone che non l’hanno letto, intona il de profundis della sovranità statale: ‘gli stati nazionali giaceranno fracassati al suolo’, recita testualmente. Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi sognano la fine dello stato nazione, e non si riferiscono soltanto alla Germania nazista, all’Italia fascista e alla Francia petainista. Secondo tale visione, lo stato in sé è causa di dittatura, guerra e negazione della democrazia, perciò Europa. Poi, nel 1957, i paesi fondatori sottoscrivono il trattato di Roma, patto confederale tra stati sovrani. Si pongono così le fondamenta dell’Unione europea: i paesi membri conservano la propria sovranità, anzi riservano a sé il potere d’imposizione fiscale e la gestione dell’acqua, e devolvono verso l’alto quanto necessario per realizzare il mercato comune. Nessuno nega la propria identità. Nel 1992, in una città olandese non particolarmente fortunata perché nel suo assedio morì d’Artagnan, viene sottoscritto il trattato di Maastricht di cui si conosce un aspetto, la moneta unica, ma non il dark side, la cosiddetta ‘vendetta di Spinelli’”. Aspetti, mi sono persa: Spinelli, cosa? “E’ il ritorno del progetto federalista originario. Gli stati conferiscono a Bruxelles una ragguardevole quantità di fondi nazionali, e Bruxelles provvede ad assegnarli direttamente alle regioni bypassando gli stati. Gli ‘illuminati’ pensano di fare politica con la moneta: ‘federate i loro portafogli, federerete anche i loro cuori’, oggi vediamo che non è andata esattamente così ma in aggiunta c’è l’altro lato del trattato, l’idea di smontare gli stati con i soldi degli stati. Il meccanismo ha funzionato male in Italia e benissimo in Spagna. Benissimo, si fa per dire: la Catalogna, rivitalizzata dall’Europa, rivendica verso la Spagna la sua originaria sovranità. Il caso catalano non è marginale: pensi alla Piccardia, alla Bretagna, alla Corsica…”.

  

Nel 2016 lei ha scritto che il mondo odierno è “furiosus” come l’Europa del Cinquecento, teatro della prima globalizzazione: il disordine prevale sull’ordine, e spiazza l’Europa che, dominata dalla “tirannia della stupidità, legifera su salvia, basilico e rosmarino. “Una settimana prima del voto sulla Brexit, Bruxelles ha ritirato in extremis una direttiva di centoventi pagine sulle toilette. Era delirio di potere burocratico. Delle tre Europe descritte, il modello che mi sembra più giusto è quello del trattato di Roma: l’Unione come Confederazione di stati sovrani. Per inciso, l’apparato medievale di regole che ci soffoca e ci penalizza nella competizione globale va abbattuto”. Quali nuove materie dovrebbero essere “comunitarizzate”? “Difesa, sicurezza e intelligence. Nel 2003 l’Italia rilanciò l’idea degli eurobond: l’obiettivo era, tra l’altro, la raccolta di fondi privati sui mercati per costruire una difesa europea dotata di una solida industria militare. Gordon Brown, all’epoca mio omologo nel governo guidato da Tony Blair, mi confidò che l’idea era buona ma faceva troppo nation building, e per questo si oppose”. L’Europa, dunque, dovrebbe recuperare il progetto della Comunità europea di difesa, stroncato sul nascere dal generale Charles De Gaulle contro la ‘mescolanza apolide’ degli eserciti. “Se ci pensa, la democrazia c’è ancora nelle birrerie, nei pub, nei bar, sugli autobus. Se lei entra in uno di questi posti e annuncia che serve più ‘unione bancaria’, la gente la prende a calci. Se invece afferma che servono più difesa e intelligence, è probabile che le persone la capiscano. L’Inno alla gioia è l’inno ufficiale dell’Ue dal 1985: se scendiamo qui in piazza e facciamo partire la musica, nessuno saprà dire di che cosa si tratta”. Non si può dire che abbia portato fortuna al presidente Emmanuel Macron che, nel giorno della vittoria elettorale, si è fatto accompagnare sull’Esplanade du Louvre dalle note della Nona di Beethoven. “Nel discorso di Versailles, pronunciato il 3 luglio dello scorso anno davanti ai parlamentari dell’Assemblea nazionale e del Senato convocati nella reggia che fu teatro della fine della monarchia, Macron afferma che la Francia si fonda sui princìpi dell’Illuminismo. Il generale De Gaulle sarebbe partito dal valore della storia, della religione, delle tradizioni, dell’agricoltura e, perché no, dei formaggi”. E’ il fattore “romantico” che rinsalda una comunità. “La vita non si riduce soltanto all’economia. La pressione drammatica del tempo fa riemergere la memoria e la storia, l’identità e la terra. Patria è dove riposano le ossa dei tuoi padri, e il modo in cui strade e cattedrali sono edificate non è un aspetto marginale. Tante volte ho scritto sul ritorno del ‘romanticismo’ e sui suoi effetti politici”. Mi torna in mente l’immagine di Salvini che mescola la polenta nel paiolo di rame o addenta un tocco di formaggio durante una sagra paesana: la propaganda sovranista è “local”, pure a tavola.

  


  “Rifiuto lo schema sovranismo vs globalismo. Forse Thatcher era una globalista? E Reagan? Una nuova via alternativa è ancora possibile”


  

“Per la verità, non lo fa solo al nord con la polenta ma anche al sud con i calamari. Dell’Italia non parlo, gliel’ho detto”. Anche se lei non li considera suoi allievi, è innegabile che l’esperimento italiano di leghisti e pentastellati, forse inconsapevolmente, ricalchi diversi topoi del Tremonti-pensiero. “Sul contratto le dico cosa penso. In Europa l’Italia è l’unico paese davvero duale: il nord ha livelli di ricchezza così elevati da essere fuori dalle statistiche; il sud è immensamente più povero. Nonostante la dualità economica, l’Italia è stata tuttavia per decenni politicamente omogenea. Dallo scorso marzo, per la prima volta dopo l’unità, il paese è diventato drammaticamente duale anche sul piano politico: rispetto a questo scenario, non mi sento di considerare negativa l’idea di ‘contratto di governo’ ma a valle, una volta che questo è stato sottoscritto, hanno commesso forse un errore: in una logica elettorale, invece di fare due più due fa tre, hanno fatto due più due fa cinque. Adesso però mi fa troppe domande sull’Italia, la prego di interrompere la registrazione audio”. Recepito, professore. Mi dica soltanto una cosa: l’euro è irreversibile? “L’euro è stato ed è un caso unico nella storia, almeno per ora: una moneta senza governo e governi senza moneta, esso è considerato irreversibile. Dato che le parole hanno sempre un senso tremendo, quando usi la parola ‘irreversibile’, parti dall’assunzione opposta, che sia invece reversibile. Nessuno ti dice che il dollaro è irreversibile, lo si dice dell’euro non tanto perché c’è fiducia che esso ci sia quanto per la paura che non ci sia. Più in generale, nel mondo globale, è comunque sempre più difficile la permanenza di monete nazionali. Tra l’altro, dovresti giudicare chi le firma. In ogni caso, se l’euro è irreversibile, stare dentro l’euro vuol dire avere meno sovranità, piaccia o no, e più responsabilità comune. Le decisioni che assumi sul tuo debito incidono sul valore del risparmio di un ferroviere di Stoccarda”.

  

A proposito della manovra finanziaria, di cui non parleremo, l’impennata dello spread denota l’agitazione degli investitori. I mercati cattivi si coalizzano contro i gialloverdi? “I mercati finanziari sono composti, nella più gran parte, dai fondi che fanno funzionare il welfare state dei paesi anglosassoni. Se sei virtuoso, il cielo ti premia con il reddito; se impieghi virtuosamente il reddito nei fondi di previdenza, assistenza, sanità e scuola, lo stato ti premia con le deduzioni fiscali, e per pagarti pensione, insegnante e dentista i fondi investono sul mercato. Il sistema si chiama ‘public’ perché ha una funzione pubblica, da quelle parti non ci sono l’Inps e le Asl. Data questa funzione, i fondi investono solo se hanno fiducia: se il ritorno degli investimenti non quadra, vengono meno alla loro missione. Questo spiega la coppia mercati-fiducia”. Lei si è occupato di molteplici manovre finanziarie… “Trascorrevo non allegramente le notti con i tecnici della ragioneria, non ci s’improvvisa da un giorno all’altro. Secondo la Casta, il debito pubblico italiano lo avrebbero fatto i politici rubando. Il furto del terzo debito pubblico del mondo avrebbe richiesto gli sforzi non solo dei politici ma anche della mafia, della camorra, della ndrangheta, della sacra corona unita e così via… Dopo i politici ladri sono venuti i tecnici dell’abisso, ed è così che ha preso piede l’idea che la massaia possa scrivere la legge di bilancio”. Renato Brunetta la punzecchiava ricordandole il suo background di giurista. “Per me è sempre stato motivo di orgoglio”. Professore, volgiamo lo sguardo a Oriente: nel 1997 l’allora presidente Bill Clinton rimprovera il governo cinese perché si rifiuta di liberalizzare la politica nazionale, mettendosi così “dalla parte sbagliata della storia”. “Carlo Marx, la lettura preferita da Clinton, scriveva anche lui che l’artiglieria pesante dell’industria europea avrebbe abbattuto le muraglie cinesi. Non è andata esattamente così, la storia attuale non è quella dei bassi prezzi europei ma semmai dei bassi prezzi asiatici. Comunque non mi pare che in Cina sia tutto positivo”. Nel 2009 lei è stato invitato per una lezione alla Scuola centrale del Partito comunista a Pechino dove ha conosciuto il numero uno dell’istituto, attuale presidente della Repubblica, Xi Jinping. “Per ringraziarlo, al ritorno gli ho spedito, a mie spese, un’edizione, per la verità non coeva, del ‘Viaggio in Olanda’ di Denis Diderot in cui si legge: ‘Governare un paese piccolo, l’Olanda, è facile. Governare un paese grande, la Francia, è più difficile’. Per quanto vedo e so, il problema della Cina è ‘demography is a destiny’, e lo vede anche lei sulla mappa luminosa di Google maps: la costa è illuminatissima e ci vivi da occidentale, l’interno è un gigantesco vacuum nero, però abitato da centinaia di milioni di persone. Per la prima volta nella storia dell’umanità, tu hai l’invecchiamento in ambiente rurale, nel senso che qui ci sono soprattutto vecchi. Provi lei a trainare il bue o a guidare il trattore a ottant’anni. Lo sforzo politico è stato ed è quello di spostare verso la costa masse enormi di persone, in città completamente nuove, ma con il rischio di far riemergere quei conflitti che per secoli hanno caratterizzato il continente cinese”. La Cina è imperialista? “Se hai chiaro ‘demography is a destiny’, interessa di più lo sviluppo per sopravvivere che non lo sviluppo imperialista. Non è inoltre da trascurare un dato culturale: all’indomani del secondo conflitto mondiale, tutti volevano essere americani, il sogno di Hollywood era travolgente”. Il Chinese way of life non esercita lo stesso fascino. “Il simbolo della Cina è l’esagono, un segno che indica più l’interno che l’esterno”.