La riunione del governo con i vertici delle principali società a controllo pubblico (Foto LaPresse/Palazzo Chigi/Filippo Attili)

Così il Leviatano Conte convince le imprese di stato a investire per lui. Potevano rifiutarsi?

Alberto Brambilla

Il premier convoca i vertici delle principali società a controllo pubblico per un'inedita riunione a Palazzo Chigi. Ma l’atteggiamento dirigista potrebbe rivelarsi un boomerang

Roma. Il governo Conte ha convinto le principali società a controllo pubblico ad aumentare i loro piani di investimento nei prossimi cinque anni dopo una inedita riunione a Palazzo Chigi in cui sono stati convocati gli amministratori delle aziende di stato. Hanno partecipato i manager di Cassa depositi e prestiti e relative controllate – Terna, Snam, Italgas, Fincantieri, Ansaldo Energia – e le società a controllo pubblico Eni, Enel, Poste Italiane, Ferrovie dello Stato e Open Fiber.

Una chiamata a rapporto, avvenuta per missiva diretta agli amministratori delegati, inviata lunedì scorso, per spingerli ad affiancare il piano di nuovi investimenti pubblici da 15 miliardi di euro, oltre a 36 miliardi di investimenti finanziari già stanziati dai precedenti governi ma tuttora bloccati. Secondo Conte, i nuovi investimenti potrebbero passare da 15 a 20 miliardi grazie alle aziende pubbliche. E l’obiettivo è di portarli, tra il 2022 e il 2033, ad altri 30 miliardi.

 

“Abbiamo raccolto dalle aziende partecipate una disponibilità veramente grande e usciamo con la sensazione vera che l’Italia può fare sistema”, ha detto il presidente del Consiglio affiancato dai vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini, anche loro presenti all’incontro.

Conte ha in effetti ricevuto l’appoggio delle aziende di stato. Sarebbe stato invero improbabile ricevere un diniego da parte delle società controllate: per i manager sarebbe un po’ come rifiutare un ordine dal padrone, accettandone quindi le conseguenze per loro stessi.

La galassia di Cassa depositi e prestiti sarebbe pronta a investire 22 miliardi di euro nei prossimi cinque anni, un piano su cui i chief financial officer delle società sono al lavoro.

 

Durante l’incontro il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha chiarito cosa le aziende potranno avere in cambio assicurando che si impegnerà ad accelerare le riforme necessarie per aumentare gli investimenti laddove ci sono dei vincoli procedurali amministrativi. Tria avrebbe comunicato l’intenzione di “accelerare la capacità progettuale e tecnica delle pubbliche amministrazioni territoriali attraverso il supporto di una sorta di agenzia indipendente che faciliti l’accesso ai fondi pubblici statali ed europei stanziati ma spesso non utilizzati”.

 

Il governo ha intenzione di creare da un lato una “cabina di regia”, come ha detto Conte, per monitorare la realizzazione degli investimenti pubblici delle partecipate e, dall’altro lato, di creare un nuovo organismo non meglio specificato per non disperdere fondi pubblici. Il governo gialloverde sta dimostrando di volere concentrare su di sé la capacità di manovrare società pubbliche che sono sotto il suo controllo a monte e a valle.

Un particolare probabilmente rivela il dirigismo governativo più d’altri. Tim era stata convocata venerdì e poi è stata depennata perché la quota che Cdp detiene nella compagnia telefonica è solo del 4,9 per cento e, quindi, è così esigua da non essere paragonabile a quella di altre aziende statali. Senza contare che i vertici di Tim erano stati a colloquio diretto con Conte settimane fa. La convocazione per errore rivela il tic di esercitare controllo anche quando non è formalmente possibile, come se quel 5 per cento valesse il 51 per cento.

 

La riunione è avvenuta a mercati chiusi e non ci sono reazioni notevoli da parte degli investitori. Tuttavia parliamo anche di aziende quotate in Borsa con una platea di investitori esteri, come Eni, che vengono usate per fare politica industriale. E’ possibile che la perdita di autonomia dei manager – che riescono a ottenere commesse all’estero con successo, come Enel – diventi un punto di discussione in futuro. Il caso di Atlantia dopo il crollo del ponte Morandi a Genova è particolare, ma è un esempio significativo di come l’aumento della pressione politica sia considerata un rischio dagli investitori: dopo le minacce di ritiro delle concessioni autostradali il titolo Atlantia è stato affossato. Specularmente l’atteggiamento dirigista potrebbe motivare un’impresa straniera a valutare con maggiore attenzione un investimento in Italia nell’incertezza di essere anche lei fagocitata dal Leviatano.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.