Così l'automotive risponde all'invecchiamento, al welfare e alla mobilità
Non solo motori. Perché l'industria delle industrie è fuori di sé
Probabilmente Peter Drucker non si sarebbe spinto a profetizzare che l’industria delle industrie un giorno sarebbe uscita dal suo perimetro di competenza. Eppure accade. Per sei mesi alcuni giovani dirigenti di Toyota hanno preso l’abitudine di riunirsi con alcuni pari gradi di Softbank, il colosso della tecnologia nipponica. All’insaputa dei rispettivi capi perché al centro degli incontri, fuori orario, era un tema assai al di là delle loro competenze: il ritardo nello sviluppo dell’auto a guida autonoma del Giappone rispetto ad americani e cinesi. Il gap è grande, è stata la loro diagnosi, ma se mettiamo assieme le nostre competenze nell’auto e nelle tlc, hanno concluso, possiamo recuperare. Un messaggio che, in barba a qualsiasi gerarchia, è stato raccolto in tempo quasi reale da Junichi Miyakawa, il big boss delle tecnologie di Softbank, a dimostrazione della reattività della new economy del Sol Levante, il paese per vecchi per eccellenza. Ma proprio alla terza età si rivolge il progetto Monet, che sta per Mobility Network senza alcun riferimento al maestro impressionista: due miliardi di dollari per avviare un servizio, basato su auto a guida autonoma che garantirà, a vantaggio degli anziani, i collegamenti delle aree rurali, specie quelle che non dispongono più di un ospedale.
Entro il 2020 il Giappone disporrà di una rete di vetture le e-Palette, che distribuiranno medicinali e cibo su richiesta in remoto. A costi ridotti, perché le auto-robot, ad esempio quelle sviluppate da Uber (con il contributo di Toyota), non hanno costi per gli autisti. Il caso giapponese non è isolato. Non passa giorni senza che si registri una novità nel mondo a quattro ruote, all’apparenza in ottima salute (quest’anno verrà abbattuto il muro dei 100 milioni di veicoli venduti in un anno), mai così fragile, però di fronte alle rivoluzioni del futuro prossimo (elettrico, ibrido) e della stretta dei regolamenti sulla circolazione, una doccia fredda per automobilisti padani che spiega in buona parte la sbandata delle immatricolazioni in Italia: sotto del 25,3 per cento a settembre, addirittura meno 40 per il gruppo Fca nonostante la buona performance di Jeep.
Non occorre scomodare un guru della mobilità per interpretare la fotografia del mercato. A pagare il prezzo più alto sono i motori diesel (meno 38,3), l’unica tecnologia in cui l’Europa vanta una sicura leadership, ibrido ed elettrico, seppur su numeri (per ora) piccoli, viaggiano con un eloquente più 35,7. Certo, un mese solo non fa tendenza. Ma perfino la panzer armata tedesca, che ha difeso il diesel con più tenacia di quel che non fece la sesta armata di Von Paulus nella sacca di Stalingrado, si è ormai rassegnato. Basta a dimostrarlo il report pubblicato da Bmw a metà settembre, un vero warning che per una seduta ha fatto vacillare il gioiello di Monaco, che pure è probabilmente l’azienda d’oltre Reno più avanti nello sviluppo dell’elettrico. Adottando in anticipo i principi Wltp sulle emissioni, il gruppo ha rivisto in sensibile ribasso i target di bilancio sia per quel che riguarda l’utile che l’ebitda. Questo perché le nuove regole “comportano significative distorsioni dell’offerta in diversi mercati europei e un’inaspettata competizione” senza trascurare “i continui conflitti commerciali internazionali che stanno aggravando la situazione del mercato e alimentando l'incertezza”. Intanto il numero uno di Volkswagen, Herbert Diess, che pochi mesi fa aveva stupito la platea di Francoforte annunciando 20 miliardi di investimenti nell’elettrico entro il 2030, ha confessato che la cifra andrà rivista all’insù (e non di poco).
Insomma, più investimenti, più costi e quasi certamente meno profitti, perché la concorrenza morde ed il mercato, a partire dai millennial, attribuisce sempre meno appeal e prestigio alle quattro ruote: a meno di potersi permettere una Ferrari o l’Aston Martin di James Bond (un mezzo flop, però, l’esordio in Borsa a Londra) l’auto del futuro rischia di assomigliare alle simil caffettiere di Google che sfrecciano sulle strade d’America. Oppure di esser vetture in condominio, da car sharing che stanno al vecchio status symbol come la seconda casa in affitto ad una villa palladiana. Guai a credere che certi processi appartengano al futuro.
La nuova mobilità ha bisogno di mobilitare le masse per esser conveniente: è di questi giorni l’avvio di una campagna di Lyst, il concorrente di Uber, per convincere gli automobilisti a vender il proprio mezzo e ad affidarsi al noleggio. L’obiettivo è 150 mila contratti entro l’anno. In questa cornice acquista credito la profezia di Sergio Marchionne: l’industria dell’auto, assatanata come un drogato perso di capitali, è condannata a condividere investimenti e ricerca e ad ingranare la seta marcia sul fronte delle alleanze finanziarie. Ma, profeta inascoltato nella sua Detroit, Marchionne non ebbe fortuna: più di una volta Gm rifiutò senza nemmeno discutere le sue offerte. Ora, però, si cambia: Gm si è alleata con la giapponese Honda per accelerare lo sviluppo di Gm Cruise Holding, la divisione del gruppo di Detroit che si occupa di guida autonoma. Certo, le condizioni sono ben diverse da quelle prospettate da Fca. Honda, infatti, investirà dollari sonanti (2,75 miliardi di dollari) e altri ne ha già messi Toyota: costa caro far la guerra a Waymo, la divisione mobilità di Google.
Ma l’elenco dei competitor, vecchi e nuovi, s’allunga ogni giorno di più: Audi annuncia che a fine 2018 la fabbrica di e-tron, il modello elettrico di punta lavorerà al massimo della capacità produttiva. Carlos Ghosn, il piccolo Napoleone che guida l’armata Renault-Nissan- Mitsubishi punta sulla Cina per imporre la svolta elettrica, anche con il minisuv K-ZE. Anche il rivale Carlos Tavares di Peugeot punta sull’elettrico ma per rientrare alla grande negli States, dove i Big di Wall Street si preparano a giocare la partita di Tesla. Insomma, non parliamo più di auto, ma di mobilità e di tutti quel che comporta, dall’industria ai servizi alla riorganizzazione delle economie e delle alleanze.