Non guardate alla velocità delle vendite ma alla frenata delle Ipo
Non solo Magneti Marelli, altro made in Italy va all’estero. Ma i sovranisti dovrebbero occuparsi delle società che non vanno in Borsa
Roma. Se la diarchia Lega-M5s non avesse usato come argomenti di propaganda politica la ritirata dalla globalizzazione e l’autarchia finanziaria sembrerebbe dimostrare un atteggiamento “market-friendly”. Dopo decenni in mani italiane l’Ilva è passata alla multinazionale ArcelorMittal. Alitalia avrebbe un presidio pubblico in Ferrovie dello stato ma dovrebbe – nelle intenzioni del governo – essere affiancata o dal colosso americano Delta oppure dalla cinese China Eastern; sarebbe comunque un forestiero a guidare la cloche. E non sono stati innalzati ponti levatoi, né si registrano moral suasion rilevanti, verso la rapida cessione all’estero di quattro aziende italiane nell’arco di due mesi. A settembre la Gianni Versace Spa, una delle ultime maison del lusso indipendenti fondata nel 1978, ha annunciato la vendita a Michael Kors per 1,8 miliardi di euro. In ottobre la iGuzzini illuminazione, fondata nel 1959 nelle Marche, sarà controllata dalla svedese Fagerhult. E nello stesso mese il gruppo cinese Qindao Haier, specializzato nella produzione di elettrodomestici, ha rilevato Candy dalla famiglia Fumagalli per per 475 milioni. Ieri Magneti Marelli, sistemi per auto ad alta tecnologia, fondata nel 1919, è stata venduta da Fiat-Chrisler Automobiles alla giapponese Calsonic Kansei.
Sfortunatamente di “market-friendly” questo governo ha nulla. L’ambiguità sulla permanenza nell’area euro, la sfida alla Commissione europea con una manovra che anziché ridurre il debito gradualmente lo aumenta sensibilmente, e il rischio politico che si trasmette al settore bancario attraverso il declassamento del merito di credito sovrano da parte delle agenzie di rating – l’ultima Moody’s – fa dell’Italia un mercato speculativo più che un porto sicuro per investire capitali. Il sovranismo economico, declinato in autarchia finanziaria, si riflette nella volontà di dirottare il risparmio degli italiani verso l’acquisto di titoli di stato con l’obiettivo di “ri-nazionalizzare” il debito attraverso l’esca dei Conti individuali di risparmio (Cir), emissioni di titoli italiani ad alto rendimento ed esentasse. Non c’è forse modo più efficace per evitare che gli italiani investano sul mercato azionario che quello di attirarli sui titoli di stato.
In queste condizioni non deve stupire se fino a ottobre ci sono state soltanto due quotazioni (o initial public offering, Ipo) sulla Borsa di Milano: la padovana Carel Industries, sistemi di condizionamento e il Gruppo Piovan, macchine per il trattamento della plastica. A prevalere è l’intenzione di ritardare la quotazione oppure di evitarla. Sigaro Toscano, della famiglia Montezemolo, ha rinviato la quotazione per condizioni avverse del mercato. Idem l’utility toscana Estra. Il tour operator Alpitour è in pausa di riflessione così come Nexi, infrastrutture per pagamenti digitali. La catena di ristorazione Eataly ha rimandato la discussione sulla eventuale Ipo al 2019. A fine 2017, le società domestiche quotate sulla Borsa Italiana erano 240, numero nettamente inferiore a quello di altri mercati europei. Nulla fa pensare che quest’anno ci sarà un’inversione. “Non vogliamo quotarci con questa agitazione in corso”, ha detto Panfilo Tantarelli, ex banchiere e capo del fondo Tages, al Financial Times riferendosi alla quotazione del Credito fondiario analizzando la situazione politica italiana con Lega e M5s al governo. Punta a quotarsi entro l’anno la Garofalo Healtcare, società di cliniche private in espansione. La sanità è un settore conservativo, ovvero non esposto al ciclo economico (né politico) come il settore bancario-finanziario; e può avere delle chance. Tuttavia come chiamare la visione di un fiore che sboccia nel deserto se non una consolazione?