Credito sotto stress. Così avanza la desolazione bancaria europea
Le banche europee cercano di aggregarsi per contrastare le rivali americane che però continuano a crescere. L’Unione bancaria moribonda, i vincoli stringenti, le perdite in Borsa, il caos politico rendono le fusioni continentali una chimera
Il passaggio delle trimestrali delle banche americane era atteso con una insolita attenzione. Storicamente, infatti il terzo trimestre è abbastanza arido. Questa volta nell’anno II dell’èra Trump, i passaggi della politica monetaria e conseguente chiusura dei rubinetti da parte della Federal reserve, le tensioni commerciali e le incertezze geopolitiche hanno contribuito a mantenere vivo l’interesse nei risultati dei titoli finanziari americani. Dopo due scintillanti anni, il 2018 non è stato sinora foriero di soddisfazioni per le banche americane dal punto di vista borsistico. L’indice Bkk della Kbw, contenente le 24 più importanti banche americane e giù di quindici punti. Stesso dicasi per l’indice Krx della Kbw dedicato alle banche di media dimensione. Tale performance potrebbe sembrare a prima vista strana, attesa la vigorosa crescita economica americana, la congiuntura dei tassi e l’ammorbidimento regolamentare repubblicano, di cui le banche sarebbero le principali beneficiarie. Con una analisi più approfondita si palesano le sfide per il settore bancario americano.
La curva dei tassi americani è un po’ (troppo) piatta data la traiettoria dei tassi, il delta positivo della crescita del pil a stelle e strisce non si sarebbe tradotto in crescita conseguente degli impieghi. La banca M&T di Buffalo, una “super-regional” con attivi per 118 miliardi di dollari, faceva notare nel suo rapporto annuale 2017 come negli ultimi due anni le banche propriamente dette avessero catturato solo il 6-8 per cento del nuovo credito erogato contro una forchetta del 15-25 per cento nei precedenti cinque anni. Questo tutto a beneficio dello shadow banking secondo la fortunata definizione dell’economista Paul McCulley. Inoltre con l’invecchiamento della forse più lunga ripresa economica mai registrata va aggiunto il rischio che il circolo virtuoso – più crescita, più credito, più spesa– si inceppi e la qualità degli attivi peggiori. Come da copione secondo il detto che le banche si comprano quando erogano il credito a mani basse ma non quando cercano di recuperare i crediti, frattanto, divenuti inesigibili. E pensare che le banche americane sono il vincitore del mondo finanziario post crisi. Giganti quali JP Morgan, Citi e Bank of America dominano nelle attività legate ai mercati finanziari.
Questi flow monster hanno divorato le quote di mercato delle banche europee e asiatiche in ritirata da prodotti e geografie. Si pensi ai fasti perduti di banche europee come Rbs (ora NatWest), le tre grandi banche francesi, le Landesbanken tedesche o alla giapponese Nomura che contava di conquistare l’investment banking europeo con la ripresa delle attività nel Vecchio continente della defunta Lehman. A presidiare, si diceva, il lucrativo mercato dei bond e delle azioni americane, delle europee sono di fatto restate solo Barclays, Deutsche Bank, Credit Suisse e Hsbc con risultati alterni, atteso che i ricavi capital markets delle prime tre sono scesi dalla metà al 30 per cento dei ricavi totali. Insieme a uno sparuto drappello di banche canadesi e giapponesi con quelle cinesi che timidamente cercano di affacciarsi. In più a Wall Street hanno riscosso negli ultimi anni un discreto successo realtà come la sempre verde Lazard, boutique come Moellis & Co, apportatori di liquidità come Virtu Financial e piattaforme di trading come Citadel.
Il vantaggio di questi più agili operatori parrebbe risiedere in culture d’impresa meno burocratiche, nell’assenza di conflitti di interesse dei global players con ampia gamma di prodotti, nella struttura dei costi più flessibile e nelle remunerazioni stock-based che un poco ricordano i tempi delle partnership d’antan. Da questa parte dell’Oceano la situazione è per certi versi più difficile. L’andamento dello Euro Stoxx Banks, l’indice delle banche europee a maggiore capitalizzazione sotto di più del 20 per cento da inizio anno, è assai eloquente. Come mai questo desolato paesaggio in Europa che ricorda la waste land di T. S. Eliot?
Semplice, il settore paga un conto salato dovuto al ritardo delle azioni di riparazione post crisi. Ci sono delle attenuanti essendo la Ue 28 (a breve Ue 27) un mercato bancario non uniforme a differenza degli Stati Uniti. Molto è stato fatto dal lancio della Unione bancaria sancito simbolicamente dalla Asset quality review (Aqr) della Banca centrale europea concernente le primarie 130 banche della zona euro di fine ottobre 2014. Si pensi solo ai €150 miliardi di capitale raccolti cumulativamente dalle banche italiane. Positivo senza dubbio l’avere evidenziato criticità del sistema e imposto la ricapitalizzazione delle entità più deboli. Positivo anche se non particolarmente apprezzato dal grande pubblico la grande masse di dati resi in formati più o meno comparabili. E pertanto l’Unione bancaria resta zoppa senza la tanto agognata assicurazione paneuropea sui depositi, lo schema European deposit insurance scheme (Edis) della Commissione europea. Questa a sua volta esplicita problemi di cross-subsidisation, ovvero garba poco ai popoli nordici che osservano con apprensione i coefficienti di crediti inesigibili ancora elevati delle banche del Club Med.
La profittabilità del sistema europeo, includendo le banche britanniche, non è eccelsa. Dato asseverato dalla semplice constatazione che in Borsa la “tipica” banca europea si scambia a valori inferiori al valore di libro. Questo vale anche per banche emerse vincitrici dalla Gfc come vere paneuropee Bnp Paribas o la spagnola Santander che potrebbe far suo il detto di Carlo V in merito al sole che mai tramontava sul suo regno. A pesare sui conti economici del settore sono gli ancora imponenti costi fissi, I tassi Euribor negativi – veritiera operazione di “redristibuzione” dalle banche alle economie reali – il mancante o almeno non bastevole appetito di credito di famiglie e imprese, gli oneri del passato, incarnati in crediti inesigibili o sanzioni disciplinari di varia origine. Tali problemi sono aggravati dalla necessità di ripensare il modo di fare banca. In specie l’argomento della digitalizzazione che promette guadagni di efficienza diluiti nel tempo ma anche certi aumenti dei costi per investimenti in information technology nel breve periodo. Nell’assenza di una significativa ripresa dell’inflazione europea e del conseguente ciclo del rialzo dei tassi come uscirne?
Difficile trovare improbabili deus ex machina. Un candidato sempreverde pare essere il ritorno del Mergers & Acquisition (M&A). Purtroppo più o meno recenti reincarnazioni del M&A sono state parecchio disastrose. Gli esempi negativi si sprecano da Commerzbank/Dresdner a Lloyds/Hbos a Rbs/Abn Amro a Mps/Antonveneta. Risultati migliori sono stati ottenuti dalle campagne del Santander o dall’acquisizione della belga Fortis per parte di Bnp Paribas. Nonostante i desiderata di taluni capi impresa, aggregazioni a livello europeo restano difficili, stante l’Unione bancaria ancora zoppa. Anche perché oltre una certa soglia di bilancio per gruppi estesi su più paesi si rischiano diseconomie regolamentari. Altrimenti detto, la Bce potrebbe rivedere al rialzo i requisiti patrimoniali delle banche promesse a nozze invocando l’aumento della complessità gestionale. Più facile immaginare un continuazione delle aggregazioni nazionali. Molto è stato fatto in Spagna per esempio dopo la riforma delle moribonde Cajas (le casse di risparmio locali) e qualcosa potrebbe nascere tra gli istituti di medie dimensioni. L’incognita risiede nella composizione degli attivi di queste banche che sono fortia rerum commerciali di natura e hanno molti mutui in pancia indicizzati all’Euribor.
Nell’attuale congiuntura dei tassi questi attivi non sono particolarmente attrattivi. Di sicuro se si guarda alla frammentazione dei settori bancari nella zona euro, due giurisdizioni spiccano: la Germania e l’Italia. La prima soffre la tri-partizione tra settore privato/banche cooperative (Genossenschaften)/casse di risparmio (Sparkassen), non conduttivo di margini allettevoli. L’Italia ha ancora troppe medie, piccole banche con obiettivi similari. Passi avanti significativi sono stati fatti sul lato della corporate governance che, per essere chiari, ha lasciato a desiderare nel passato anche nel settore privato disciplinato dal codice civile. Alcune ben calibrate misure fiscali potrebbero facilitare il processo e avere ripercussioni positive per l’erario nel medio termine. Occupato a fare approvare la “manovra del popolo”, forse tali considerazioni non sono abbastanza ambiziose per un governo che dice di volere abolire la povertà.
* Filippo Maria Alloatti è senior credit analyst, Hermes Investment Management