Così la manovra azzoppa il futuro economico del paese
Puntare sul digitale vuol dire aumentare la produttività e quindi creare lavoro. L'intervento di Marco Gay, presidente di Anitec-Assinform, al "Convegno Digitale per crescere"
Perché Anitec e Assinform si sono unite? E' una scelta basata su tre elementi: sinergie, contaminazione, rappresentatività. Tre elementi essenziali per la vita associativa ma che sono, in fondo, gli stessi alla base del nostro lavoro: sinergie significa liberare risorse per investire, contaminazione significa innovare prodotti, processi e servizi, rappresentatività significa avere market share.
Oggi, Anitec-Assinform ha davvero un market share rilevante: con 200 aziende associate rappresenta un fatturato complessivo di 21 miliardi, ovvero la metà del mercato IT in Italia, e 70 mila addetti, ossia oltre un terzo degli occupati nelle aziende con più di 50 dipendenti. Numeri che salgono, se consideriamo anche i 300 associati indiretti. Numeri che pesano, se consideriamo che appartengono al settore più dinamico della nostra economia.
Perché i dati che emergono dall’aggiornamento del nostro Rapporto sul mercato digitale, raccontano una storia di sviluppo: il tasso di crescita a due cifre di alcuni nostri comparti ICT indica un trend che davvero ci rende orgogliosi del percorso intrapreso e fiduciosi verso quello che saremo capaci di fare.
L’ICT in Italia cresce quasi il doppio del pil: dopo un incremento del 2,3 per cento nel 2017, il mercato digitale italiano – informatica, telecomunicazioni, contenuti ed elettronica di consumo – promette di crescere ancora del 2,3 per cento nel 2018, del 2,8 per cento nel 2019 e del 3,1 per cento nel 2020 fino a raggiungere un valore complessivo di 75 miliardi.
Prendiamo il comparto dei Servizi ICT, che nel 2017 ha superato gli 11 miliardi e per il quale si stima un tasso medio di crescita in 3 anni del 5,3 per cento. Prendiamo la forte dinamica dei servizi Cloud con un incremento atteso del 20,3 per cento. O ancora il comparto Software e Soluzioni ICT al 7,3 per cento. E’ questo il peso delle componenti più innovative, dalla Cybersecurity al Mobile, da IoT ai Big Data, questi sono i Digital Enabler proprio perché permettono di fare cose nuove e capaci di trainare l’intero mercato. Ma non è solo una questione quantitativa dell’offerta: cambia in meglio anche la qualità della domanda in molti settori d’utenza, dal Finance all’Industria, alla Distribuzione alle Utility.
E nascono nuove sfide e nuovi mercati collegati all’Intelligenza Artificiale e alla Blockchain.
Lo sviluppo di queste componenti innovative è prezioso e va sostenuto per le occasioni che creano: sono queste le nuove materie prime su cui anche le industrie più tradizionali contano per crescere.
Certo, energia, costo del lavoro e approvvigionamento dei beni materiali sono importanti ma sempre di più un fattore produttivo rilevante e capace di determinare la competitività di una impresa è il digitale. Se un tempo il grado di sviluppo di un Paese era determinato dalle tonnellate di acciaio che produceva, oggi è determinato dal numero di bit che utilizza nell’economia. Perché l’IoT trasforma i prodotti delle manifatture in oggetti intelligenti ed interconnessi. Cloud e piattaforme collaborative consentono di rimodellare le filiere e le relazioni cliente-fornitore. La sicurezza digitale è alla base delle novità in ambito mobile e pagamenti. L’Intelligenza Artificiale ridisegna il modo di vivere negli ambienti domestici, di lavoro, di relazione sociale e politica. La Blockchain certifica e valorizza processi e filiere.
Insomma, investire nel digitale è, già oggi, la risposta più efficace e concreta per innalzare la produttività del nostro sistema-Paese attraverso l’innovazione.
Una spinta così forte che anche il World Economic Forum ha rivisto i parametri della sua classifica internazionale sulla competitività in base alla “quarta rivoluzione industriale”. E benché il ranking sia ancora guidato da Stati Uniti, Singapore e Germania, l’Italia sale dal 43esimo posto al 31esimo. Un risultato ancora migliore lo conseguiamo nella capacità di innovazione dove l'Italia è 22esima.
Perché non siamo sul podio? Perché abbiamo un gap digitale accumulato di oltre 300 miliardi di euro non investiti in innovazione rispetto alla media dei paesi europei. Un gap che ci è costato in mancata crescita economica, mancata produttività e mancata occupazione. Espandere il nostro settore vorrebbe dire aumentare la produttività nella nostra economia e creare occasioni di lavoro: secondo il nostro Osservatorio delle competenze digitali si creeranno 45mila nuovi posti di lavoro per le sole professioni ICT nei prossimi 3 anni che salgono a 74mila se gli investimenti in ICT dovessero crescere.
Per cogliere queste opportunità, negli ultimi anni, abbiamo accelerato tantissimo. Lo hanno fatto le aziende. Gli investimenti in early stage lo scorso anno sono cresciuti del 16,5 per cento, quelli privati di venture capital e business angel nei primi 9 mesi del 2018 hanno toccato i 307 milioni, quelli in nuovi macchinari hanno viaggiato a tassi del 35 per cento e quelli in ricerca e sviluppo nel settore ICT sono stati di oltre 12 miliardi, ovvero il 2,3 per cento del proprio fatturato contro una media dello 0,3 per cento di tutti i settori produttivi.
Non basta? No, ma vi assicuro che non è poco!
E lo stesso sforzo di accelerazione lo hanno fatto le istituzioni: politiche per l’innovazione come il Piano Impresa 4.0, per l’ammodernamento della pubblica amministrazione come il Piano Triennale, per lo sviluppo diffuso delle competenze come i competence center o la scuola digitale. Il solo Piano Industria 4.0 nel 2017 ha generato investimenti in ambito ICT per 2,2 miliardi di euro. Uno sforzo che apprezziamo, perché l’innovazione non può essere solo del settore privato: quello che serve è una innovazione diffusa, una “iper open innovation”. Dalla inclusione digitale delle PMI, per fare in modo che siano parte di filiere sempre più solide e competitive, alla PA, all’università e agli Istituti Tecnici Superiori. Un tempo chi voleva rivoluzionare scienza, tecnica e filosofia si chiudeva in un eremo, erano i monaci che isolandosi dal resto del mondo scoprivano nuove teorie. Oggi chi vuole innovare va negli hub e negli incubatori, si confronta, contamina, ibrida. E i risultati del Rapporto dimostrano che sta funzionando anche in Italia.
Ma, c’è un MA.
Siamo una industria che cresce e che fa crescere le altre industrie più tradizionali ma per continuare in questa direzione abbiamo bisogno che il Paese ci supporti. Le proiezioni che presenteremo fra poco hanno infatti questo caveat: scontano cioè la continuità dei piani nazionali di stimolo all’innovazione. Scontano che le risorse e lo sforzo collettivo per essere sempre più digitali, non dico crescano nel tempo ma che, almeno, restino invariati al livello finora conosciuto. Scontano infine, non serve che lo ricordi ma in questi giorni non possiamo tacerlo, che il nostro paese regga e che i nostri conti tengano.
Premesso che è inaccettabile per noi anche solo l’ipotesi che la seconda manifattura d’Europa non regga. E’ evidente che il clima di fiducia che ha permesso di raggiungere tutti i risultati descritti è a rischio non soltanto per il rallentamento generale dell’economia internazionale, non soltanto per il timore legato alla fine del quantitative easing, non soltanto per le turbolenze del commercio mondiale causate da dazi e politiche commerciali aggressive di USA e Cina. La fiducia è a rischio anche per le decisioni che sta prendendo l’Italia.
Siamo sotto osservazione e le prime valutazioni non ci confortano. Il giudizio di Moody’s venerdì scorso ha declassato i nostri titoli pubblici. La bocciatura della legge di bilancio da parte della Commissione Ue martedì è stata una brutta “prima volta” e ricordiamoci che l’Europa non è solo il tecnocrate di Bruxelles: è il nostro mercato imprescindibile, ecco perché una bocciatura conta. Infine c'è la valutazione di Standard & Poor’s.
Sono giudizi pesanti: come imprenditori e manager, soprattutto in un settore fluido e capital intensive come quello dell’ICT, sappiamo cosa significa uno spread che ha toccato i 340 punti in termini di costo del credito e accesso al mercato, di difficoltà aggiuntive ad attrarre partner internazionali nei nostri progetti di sviluppo, di oscillazioni del valore di borsa delle quotate. Non parlo da imprenditore soltanto ma da chi rappresenta una intera categoria e, senza timore di esagerare, da chi rappresenta un intero pezzo della società: perché le nostre imprese non creano solo valore aggiunto in termini di Pil ma sono quelle che stanno dando sostanza alla cittadinanza digitale. Che stanno rispondendo a sfide innovative profondissime: posti di lavoro, informazione, scelte individuali sono sempre più ambiti connessi e la tecnologia sarà sempre più il centro di gravità delle dinamiche economiche e sociali. Ecco perché crediamo nella collaborazione con chi deve compiere scelte fondamentali: non solo sull’allocazione delle risorse pubbliche per il settore privato ma anche per il futuro sociale e culturale del Paese che passa da identità digitale, open data, e-government, azzeramento del digital divide, pagamenti elettronici, sanità e giustizia digitale, istruzione e ricerca, smart city in un contesto che non può che essere europeo. Ed ecco perché con questa consapevolezza e con questo spirito - dialogo con chi governa e rispetto per la politica – esprimiamo una profonda preoccupazione e delusione per le scelte che si stanno compiendo in questi giorni.
Non mettiamo in dubbio che la manovra sia per l'espansione della domanda e dei consumi attraverso l’assistenza al reddito ma vi chiediamo se sia anche costruttiva su ciò che crea vera e solida crescita e benessere sociale: impresa e innovazione. Perché se la risposta è no, o non abbastanza, è essenziale cambiare rotta e farlo velocemente.
Non parlo di deficit ma di un’altra manina rispetto a quella che ha tenuto banco nel dibattito pubblico e di cui sembra ci sia poca consapevolezza: quella che ha dimezzato gli incentivi di Impresa 4.0, derubricato la voce sviluppo fra le poste di bilancio residuali, cancellato istruzione e formazione dalle priorità pubbliche. Senza ancora un testo pubblico e ufficiale ci basiamo su quanto emerso per fare le seguenti considerazioni.
Prendiamo Impresa 4.0, un programma di politica industriale dedicato all’innovazione che avremmo voluto fosse sganciato da dinamiche partitiche: le risorse stanziate sono la metà del 2018. Si riducono le aliquote dell’iperammortamento al crescere del valore dell’investimento e oltre i 20 milioni non c’è più nessun beneficio. Niente superammortamento. Niente credito di imposta per la formazione 4.0 e Competence Center. Dimezzamento dal 50 per cento al 25 per cento per spese in ricerca e sviluppo. La tassazione agevolata Ires se gli utili vengono reinvestiti in occupazione e beni materiali, ma niente sui beni immateriali.
Si dice che questo cambiamento sia per favorire innovazione nelle Pmi ed è vero che sono un target di imprese da sostenere con maggior vigore perché faticano ad avere liquidità sufficiente per la trasformazione tecnologica. Ma non è tagliando gli investimenti delle grandi imprese che si persegue questo scopo. Perché startup, pmi e multinazionali fanno parte di una unica filiera che cresce o si contrae insieme. Semmai, un contributo alle piccole imprese, si dà irrobustendo e semplificando il Fondo di Garanzia, che invece viene rifinanziato con risorse insufficienti.
Semmai è – come avevamo proposto con Confindustria Digitale – introducendo l’iperdeducibilità delle spese per software, sistemi e servizi IT erogati in cloud o via piattaforma web. Semmai è potenziando la defiscalizzazione del capitale di rischio in startup innovative, pmi innovative e progetti di open innovation dal 30per cento al 50 mper cento. Semmai è con una PA basata su un set di requisiti minimi e comuni a 8mila comuni, 20 regioni e all’amministrazione centrale che sia omogeneo, efficace ed efficiente.
Da quanto sembra, al momento, di queste proposte in legge di bilancio non c’è traccia. Apprezziamo l’idea dei voucher per i temporary digital manager così come, se ben costruito, il Fondi dei Fondi per il venture capital, ma se il sistema industriale nel suo complesso non si muove verso innovazione e ammodernamento tecnologico non bastano queste misure.
Perché questo arretramento?
Sorge il dubbio che l’innovazione non sia in cima alle priorità del Governo: se c’è il timore che innovazione equivalga a distruzione di posti di lavoro, se è questa la ragione che sta impostando le scelte di politica economica, parliamone. Abbiamo apprezzato le aperture dei tavoli su AI e blockchain, abbiamo apprezzato l’apertura del confronto su TV 4.0 e siamo certi che su tanti temi specifici sia possibile trovare una collaborazione fra pubblico e privato. Ma abbiamo bisogno di andare oltre: qua parliamo del futuro industriale e lavorativo del Paese non di un regolamento specifico di settore. E siamo qui proprio per capire insieme come minimizzare i costi di una transizione tecnologica e industriale che – lo ribadiamo – è inarrestabile e come massimizzare per tutti i benefici che – fortunatamente – sono anche essi certi, basta solo essere attrezzati per coglierli.
E’ innegabile infatti che l’innovazione cambia il mercato del lavoro ma non per forza lo riduce, semmai lo redistribuisce. La domanda “se le macchine faranno sempre più il lavoro degli uomini che cosa dobbiamo attenderci per il lavoro degli uomini?” è sacrosanta. Ma la risposta sta già nell’evoluzione degli annunci di lavoro: con l’automazione dei processi la domanda di nuove competenze si sposta verso gli ambiti di “creazione”, di “governance” e di “gestione”. E davanti a questi cambiamenti epocali non c’è che una strada: investire, investire, investire in tecnologia e in competenze. Agire su scuola, università e formazione permanente, per generare un numero maggiore di professionisti ICT.
Insomma il progresso è inevitabile, siamo solo all’inizio e l’unico modo per gestirlo è cavalcarlo.
L’unico modo di sconfiggere la paura per i vaccini è mettere in piedi progetti come lo Human Tecnopole per il trasferimento tecnologico e investire sulla ricerca. L’unico modo per raffreddare fantasmagorici piani di ritorno alla lira è rafforzare la nostra moneta e sviluppare al contempo il fintech. L’unico modo per tutelare le Pmi dalla competizione dei grandi centri commerciali aperti tutti i giorni non è chiudere i secondi la domenica ma portare le prime sull’e-commerce. L’unico modo per combattere una cultura anti-industriale che sta riemergendo dopo gli anni bui – e che sempre più si associa al pregiudizio verso la scienza e il progresso tecnologico – è fare in modo che l’industria sia il motore di uno sviluppo diffuso. Ecco perché questa manovra noi vorremmo che fosse non soltanto credibile per Bruxelles o i mercati ma sostenibile per chi lavora e produce in Italia e per le generazioni che lo faranno dopo di noi. E perché sia così non è possibile che su 37 miliardi solo una minima parte venga destinata agli investimenti e il grosso vada in spesa corrente. C’è ancora modo di intervenire in sede parlamentare e ci auguriamo davvero che la politica comprenda la necessità di farlo. Perché abbiamo davanti sfide epocali – industriale e sociali.
Il digitale ha già rivoluzionato la nostra economia e la nostra vita. La connessione in ottica 5G, l’automazione, la capacità di trattare informazioni, si intrecciano con la globalizzazione. Si collabora e si compete con aziende all’altro capo del mondo. Non c’è una garanzia di vincere queste sfide: anche chi è esperto del settore sa che ogni strategia deve cambiare e adattarsi continuamente. Non c’è una garanzia, dicevo, ma se c’è una possibilità questa possibilità siamo noi. Questa possibilità è il fermento e il dinamismo dell’ICT. Questa possibilità sono le start up come quelle che salgono su questo palco oggi e le altre 9.600 registrate nel registro imprese. Questa possibilità, infine, sono le imprese dei settori più tradizionali che hanno fatto della tecnologia la loro nuova principale materia prima. Questa possibilità, in sintesi, si basa su tre fattori: nuove imprese, imprese innovative e innovazione nelle imprese. Dobbiamo fare in modo che queste 3 possibilità diventino concrete e attuabili. Dobbiamo abbracciare la “nuova normalità” del digitale, nella quale progetti di digitalizzazione sperimentali o marginali non sono più sufficienti ma vanno gettate le basi di una vera e propria trasformazione digitale in cui tutti e tutto è ormai connesso, ovunque e in ogni momento. Serve uno sforzo maggiore e collettivo. Serve un piano di politica industriale per l’innovazione che parta dall’Italia e diventi tema di discussione a Bruxelles. Su questo dovrebbero giocarsi le prossime elezioni europee, non su chi sfora più il deficit, perché la Cina ha una politica industriale ben chiara basata su acquisizione di materie prime in Africa e di tecnologia in Ue, gli Usa idem fra energia e dazi, ma l’Europa non ha questa visione dai tempi dell’Industrial Compact. La competizione internazionale è alta e le istituzioni, la politica, non possono tirarsi indietro. Non adesso. Noi non lo faremo, perché da imprenditori e da innovatori sappiamo che non ci si tira indietro mai.
Il digitale è la nostra occasione per crescere, come aziende, come cittadini, come Paese.
Marco Gay è presidente di Anitec-Assinform