Numeri da paura
Non c’è “manina” che fa peggiorare le prospettive per l’economia italiana. Conto dei danni di governo: spread, Borsa, banche, conti pubblici, fiducia, pil. E poi c’è l’effetto contagio
Tra i primi dieci paesi dell’Eurozona, l’Italia è quello che ha lo spread tra i titoli del debito pubblico (Btp) e i Bund tedeschi di gran lunga più elevato. Nonostante si sia un po’ ridotto negli ultimi giorni, il differenziale ruota intorno a 300 punti base, livello che è pari a due volte e mezzo quello di marzo 2018 (130 punti base). Da tempo, tra gli osservatori di mercato si è diffuso il timore che il rischio sistemico connesso a questo innalzamento possa diffondersi alla zona euro.
Il tema è emerso poco nel dibattito pubblico, anche per una certa la riluttanza degli stessi operatori. Ma i primi segnali cominciano ad emergere e ne parla apertamente è Axa Investment Managers, che tiene sotto stretta osservazione alcuni “indicatori di contagio”, come quello della correlazione tra i titoli governativi e la correlazione tra questi e il sistema bancario: entrambi rappresentano spie importanti nella struttura del mercato e nel sentiment degli investitori. “Lo spread Btp-Bund ha subito uno choc e la performance di altre classi di attivo, sia esse italiane che anche di altri paesi, si è mossa nella stessa direzione anche se con variazioni di magnitudo diversa”, dice al Foglio Alessandro Tentori, Chief investment officer di Axa IM. Tanto per cominciare, da marzo 2018 a oggi, nello stesso arco temporale in cui lo spread dell’Italia ha cominciato a correre, anche il differenziale tra i rendimenti dei titoli di stato spagnoli rispetto a quelli tedeschi è quasi addoppiato passando a 128 basis point da 67 bp. Situazione analoga in Portogallo (aumento del 30 per cento a quota 155 bp). E anche in Francia e Belgio si registrano aumenti degli spread governativi anche se meno consistenti. Per Axa IM, questo vuol dire che il rischio connesso ai Btp italiani si sta diffondendo attraverso i canali di trasmissione di un sistema integrato come quello europeo. Ma attenzione – mette in guardia Tentori – il contagio finanziario non avviene solo tra classi di attivo simili, come per esempio, i titoli governativi emessi da paesi membri dell’Unione. “Lo misuriamo su uno spettro di asset molto più esteso, in modo da meglio catturarne l’entità – prosegue l’esperto – E in effetti si è osservata una forte correlazione tra Btp e banche”. Se si mette, infatti, in relazione l’andamento dei prezzi di mercato dei principali istituti di credito europei (come Bnp Parisbas, Deutsche bank, Santander) con quello dei rendimenti dei Btp italiani si vede che i primi diminuiscono quando aumentano i secondi. “Il motivo del contagio non è il Btp, ma ne è la scintilla – spiega Tentori – Le basi per un contagio sono state gettate decenni fa quando si decise di creare l’Unione monetaria, ma questo è normale perché non è ipotizzabile un’unione solo quando le cose vanno bene. In ogni caso, un altro fattore che ha rafforzato il legame tra banche e stati sovrani è la regulation di Basilea III, che incentiva gli istituti a detenere ingenti portafogli di liquidità in cosiddetti asset ad alta liquidità e ad alto rating. Le banche italiane detengono 380 miliardi di debito pubblico italiano, ma anche le tedesche e le francesi hanno enormi portafogli di titoli governativi domestici”.. Per finire, c’è l’effetto contagio che riguarda le economie reali. “Un peggioramento delle condizioni finanziarie – per esempio dovuto allo spread e alla perdita di capitalizzazione del settore bancario, come è attualmente il caso in Italia – implica una riduzione della capacità delle banche di fare prestiti. Questo si trasmette forzatamente al pil e all’inflazione, ma non solo. Anche la capacità della Banca centrale di controllare la liquidità e di raggiungere gli obiettivi di stabilità dei prezzi ne potrebbe soffrire, con conseguenti decisioni a livello di strategia monetaria”, conclude l’esperto.
Ma di quanto è diminuita la ricchezza dell’Italia dopo il voto del 4 marzo? Il Foglio ha sintetizzato gli effetti sull’economia di sei mesi circa del governo giallo-verde sulla base degli studi in circolazione e con l’aiuto di analisti e centri di ricerca.
198 miliardi
E’ quanto è costata all’Italia l’incertezza politico-finanziaria dopo le elezioni del 4 marzo, secondo uno studio della Fondazione Hume, centro di ricerche e analisi promosso da Piero Ostellino e Luca Ricolfi e che vede tra i partecipanti diverse istituzioni pubbliche e private. I ricercatori hanno basato il calcolo su tre fattori fondamentali: a) la variazione della capitalizzazione del mercato azionario italiano (limitatamente alle società quotate); b) la variazione del valore dei titoli di stato detenuti da individui e operatori residenti in Italia, al netto di quelli detenuti dalla Banca d’Italia; c) il deprezzamento dei titoli di debito del mercato obbligazionario italiano. A parte sono state calcolate le perdite di valore dei titoli detenuti dalla Banca d'Italia e dagli investitori esteri. Nello studio si precisa che tutte le stime sono prudenziali e che è ragionevole pensare che le perdite effettive siano state anche maggiori. “Ovviamente, le perdite calcolate sono virtuali e potrebbero essere riassorbite o tramutarsi in guadagni nel caso in cui la situazione economica e le valutazioni dei mercati ne prossimi mesi o anni dovessero evolvere positivamente”.
122 miliardi
E’ l’ammontare della perdita, sempre secondo la fondazione Hume, che è direttamente riconducibile a imprese e famiglie. “Un calcolo accurato delle perdite è impossibile per mancanza di dati sufficientemente analitici – dicono i ricercatori – Usando i dati disponibili sulle consistenze della ricchezza finanziaria (fonte: Banca d’Italia) e le nostre stime dei tassi di deprezzamento di azioni, obbligazioni e titoli di stato, possiamo però farci un’idea dell’ordine di grandezza minimo delle perdite: almeno 122 miliardi dalla data del voto, di cui 68 dal momento dell’insediamento del governo”. Il calcolo è stato effettuato considerando esclusivamente quella parte della ricchezza finanziaria di famiglie e imprese che è più sensibile alle fluttuazioni di mercato, in particolare i titoli del debito pubblico, obbligazioni, quote di fondi comuni, azioni e altre partecipazioni.
Oltre 100 miliardi
E’ la ricchezza bruciata dalla Borsa italiana a partire dal primo maggio 2018, come si può verificare dalle banche dati di Bloomberg. Nel caso del mercato azionario, le perdite sono più accentuate se il calcolo lo si fa partire non dalle elezioni del 4 marzo ma da due mesi più tardi, cioè dalla vigilia dell’insediamento del governo populista. La riduzione della capitalizzazione – parametro che misura il valore complessivo delle società quotate – di 100 miliardi corrisponde a un calo percentuale di circa il 23 per cento registrato dall’indice Ftse Mib, il più rappresentativo di Piazza Affari. Ai primi di maggio, infatti, l’indice aveva raggiunto un massimo di 24.500 punti con una crescita da inizio anno di oltre il 10 per cento, tant’è che si parlava di rally. Adesso, invece, lo stesso indice viaggia tra 18 e 19 mila punti, in pratica ha fatto un salto all’indietro di due anni. Gli investitori, soprattutto quelli esteri, hanno percepito un aumento del rischio geopolitico legato all’Italia da quando sono cominciate le prime esternazioni dell’esecutivo su euro e possibile sforamento dei parametri di finanza pubblica fino ad arrivare alla bocciatura della manovra economica di questi giorni. Ovviamente, sulla performance del listino hanno influito anche altri fattori, come la caduta dei titoli legati alle concessioni governative per il crollo del ponte di Genova, e la guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina. Ma il “rischio paese” è stato determinante visto che il calo del listino di Milano risulta sensibilmente superiore a quello registrato dalla media delle Borse europee nello stesso arco di tempo.
40 miliardi
E’ quanto hanno perso in Borsa le banche italiane sempre a partire dal primo maggio 2018. Un calo del 36 per cento, che è superiore di 10 punti percentuali a quello subito dall’Eurostoxx, cioè l’indice dei maggiori titoli bancari europei. Le banche italiane si sono rivelate particolarmente sensibili alle oscillazioni dello spread a causa della loro esposizione in titoli del debito pubblico, che è aumentata con l’inizio del disimpegno da parte della Banca centrale europea ad acquistare obbligazioni degli stati sovrani attraverso il programma Quantative easing. Gli istituti residenti nel nostro paese hanno in pancia Btp per un controvalore pari a circa 380 miliardi. In considerazione di questo rischio, gli investitori hanno cominciato a svuotare i portafogli delle azioni delle banche quotate, le cui perdite sul listino milanese stanno pericolosamente erodendo le soglie minime di capitale previste dalle norme europee con il rischio che si rendano necessarie operazioni di ricapitalizzazioni gravose per tutti gli azionisti.
Più 0,7 per cento
E’ di quanto aumenta il costo di finanziamento del debito pubblico – in rapporto al valore del singolo titolo – per ogni incremento di 100 punti base del differenziale con i Bund tedeschi (spread). Per ogni centro punti di spread in più lo Stato deve pagare agli investitori lo 0,7 per cento in più del valore del singolo titolo in termini di rendimenti. Siccome le cinghie di trasmissione sono molto strette e veloci, i costi per autofinanziarsi sono aumentati anche per banche e società, innescando un meccanismo a catena che, se portato all’esasperazione, conduce diritto al “credit crunch”, cioè alla stretta creditizia tipica dei periodi di recessione. Secondo Amundi (gestioni patrimoniali), il debito senior bancario italiano aveva un rendimento a scadenza pari a circa l’1 per cento al 31 marzo ed ora è salito al 2,4 per cento. Parallelamente, le emissioni obbligazionarie delle imprese non finanziarie, pagavano un tasso dello 0,85 per cento e sono salite all’1,5 per cento circa. Infine, il rendimento medio dei titoli di stato italiani con scadenza superiore all’anno è aumentato al 2,8 per cento dall’1 per cento.
Meno 1,7 per cento
Così è calato l’indice di fiducia delle imprese manifatturiere da giugno a settembre 2018 (indice Istat). Una riduzione repentina avvenuta in pochi mesi accelerando il trend negativo su base annua (meno 4 per cento). Il deterioramento della fiducia nel settore manifatturiero – in cui la voce export ha un peso rilevante – è cominciato, infatti, verso la fine del 2017 con i primi segnali dell'inizio di una guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, che si è inasprita la scorsa estate. Ma, come hanno spiegato più volte gli analisti, non è da sottovalutare l’incertezza che da mesi circonda il quadro della finanza pubblica dell'Italia che rappresenta la base per la legge di Bilancio. Con il varo della manovra, avvenuto a ottobre, successivamente all’ultima rilevazione Istat, è stata, inoltre, ridimensionata la portata del programma Industria 4.0, cosa che probabilmente farà abbassare ancora di più la fiducia del mondo produttivo.
50 miliardi
Ecco quanto crescerà la spesa pensionistica nei prossimi 20 anni, raggiungendo il picco massimo nel 2040, quando toccherà il 18,4 per cento del pil. Rispetto al 2020, il costo per pagare le pensioni agli italiani crescerà di 3,1 punti percentuali, che tradotto in cifre, vuol dire appunto oltre 50 miliardi. I dati, contenuti nelle tabelle della nota di aggiornamento al Def, ed elaborati dall’agenzia Adnkronos, mostrano che il capitolo previdenziale prenderà più della metà delle risorse destinate al welfare (la Sanità, la scuola, gli ammortizzatori sociali e il long term care). Nello stesso arco di tempo, si stima una riduzione delle risorse per l'istruzione che, in termini percentuali, passeranno dal 3,4 del pil del 2020 al 3,1 del 2040.
1,2 per cento
E’ il tasso di crescita dell’economia italiana per il 2018 previsto dall’Ocse, che lo scorso settembre ha ridotto le stime rispetto alle indicazioni espresse a fine maggio (più 1,4 per cento). L’Ocse ha anche confermato che il pil del nostro paese crescerà nel 2019 dell’1,1 per cento, ben al di sotto della stima fatta dal governo (1,5 per cento) nella manovra economica e su cui si basa l'obiettivo deficit/pil al 2,4 per cento per il 2019. Gli economisti dell’Ocse hanno rilevato che quello dell’Italia rappresenta il taso di sviluppo più lento del G7 e il penultimo nel G20 aggiungendo che il rallentamento del terzo trimestre (0,2 per cento rispetto allo 0,3 per cento dei tre mesi precedenti) è dovuto anche all’incertezza della politica. All’inizio di ottobre anche il Fondo monetario internazionale ha tagliato la crescita italiana, di 0,3 punti quest’anno e di 0,1 punti per il 2019 spiegando che sulla domanda interna è destinato a pesare l’aumento dello spread sui titoli di Stato e le più rigide condizioni finanziarie, provocate dalla “recente incertezza politica”. Per finire le agenzie di rating. Secondo Moody’s, il nostro paese crescerà a un tasso dell’1,2 per cento quest'anno e dell'1,1 per cento il prossimo. E S&P prevede una crescita dell’1,1 per cento sia per il 2019 sia per il 2019.
Meno 7 per cento
Secondo i dati Istat, infatti, le vendite all’estero sono diminuite del 3,7 per cento rispetto al mese precedente, mentre la diminuzione supera il 7 per cento se rapportata allo stesso mese dello scorso anno. Un calo brusco causato sia dalla riduzione delle esportazioni, in particolare verso i paesi extra Ue, sia dall’aumento delle importazioni (più 4,1 per cento). L’Italia ha cominciato a comprare più prodotti energetici (petrolio e derivati in primis) e anche più beni di consumo durevoli e beni strumentali, che tradizionalmente rappresentano settori di export. Il calo delle vendite extra Ue riguarda tutti i paesi principali: Russia, Turchia, Giappone, America latina, medioriente e Cina. Indice che è l’intera produzione italiana che sta segnando il passo.
40 mila
E’ la stima di posti di lavoro persi per effetto del Decreto Dignità, il primo provvedimento legislativo del governo Conte che avrebbe voluto incentivare la conversione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. Non sono ancora disponibili i numeri ufficiali del mese di settembre, ma – come riportato anche da Italia Oggi – le prime indiscrezioni trapelate dal ministero del Lavoro vanno nella direzione di un consolidamento di una tendenza negativa. Ma ad agosto è stato registrato un calo, rispetto allo stesso periodo del 2017, sia dei nuovi contratti a tempo determinato, sia delle assunzioni a termine, sia degli assunti con un contratto di somministrazione: oltre 40 mila posti di lavoro in meno.