Rivoglio il mio denaro
Torna a farsi sentire, questa volta a Bari, la richiesta dei risparmiatori. Il sistema bancario è ancora sotto pressione: gli istituti maggiori superano gli stress test della Bce, ma i medio-piccoli soffrono
Per “due grami, miseri, semplici penny” crollò la banca di Mr. Dawes mettendo sul lastrico George Banks, la moglie Winifred, i due figli Jane e Michael oltre, naturalmente, a Mary Poppins. Ricordate? Il piccolo Michael non si fa convincere a depositare i due soldini con i quali vorrebbe comprare semi per i piccioni, e mentre il vecchio, rapace banchiere glieli strappa di mano, il ragazzino grida: “Ridammeli, rivoglio il mio denaro”. La voce vola dal corridoio al salone e arriva agli orecchi dei clienti i quali assaltano gli sportelli. Quando scrisse il suo racconto, nel 1934, Pamela Lyndon Travers aveva in mente il crac del 1929 a Wall Street, ma così sono cominciate tutte le crisi bancarie della storia, da piccole banche e per pochi spiccioli rispetto alla montagna di denaro che fluttua nel mondo come una nuvola di desideri. E’ successo in Gran Bretagna anche nel 2007: la Northern Rock era un istituto creditizio di provincia, specializzato in mutui, nato appena dieci anni prima da una società di costruzioni. Eppure le code ai bancomat in quel 14 settembre hanno materializzato gli spettri del passato e innescato un effetto domino.
Settantamila piccoli azionisti hanno visto il valore dei titoli della Popolare di Bari precipitare da 9,53 euro di inizio 2016 a poco più di 2
“Rivoglio il mio denaro”: lo hanno preteso i risparmiatori che si erano fidati della Banca dell’Etruria innescando una gogna mediatica dalla chiara strumentalizzazione politica contro Maria Elena Boschi, contro Matteo Renzi, contro il Pd. “Rivoglio il mio denaro”, hanno gridato i vicentini in faccia a Gianni Zonin che li aveva resi ricchi grazie a una illusione monetaria, gonfiando come un otre la Banca popolare. In quel caso non ci fu bisogno di strumentalizzare nulla, perché la Lega egemone in Veneto e persino a Vicenza allora governata dal centrosinistra, riuscì a far passare un salvataggio pubblico in mani private, le lunghe mani della Intesa Sanpaolo. “Rivoglio il mio denaro” è quel che chiedono adesso i clienti della Bpb, la Banca Popolare di Bari con una proposta di legge presentata alla Camera di commercio. Si tratta di garantire 70 mila piccoli azionisti che hanno visto il valore dei titoli della banca precipitare da 9,53 euro di inizio 2016, a poco più di due euro a pezzo.
Dunque, non è finita. Il sistema bancario italiano è di nuovo sotto pressione. E sono le tessere piccole, periferiche, le prime a cadere. Mercoledì scorso, alla Giornata del risparmio, il governatore della Banca d’Italia ha ricordato il “notevole rafforzamento patrimoniale” delle banche: il coefficiente relativo al capitale di migliore qualità è salito, in media, al 13,2 per cento, dal 7,0 del 2008. I contribuenti italiani finora hanno speso meno di altri: l’impatto dei salvataggi sul debito pubblico ha raggiunto un massimo dell’1,3 per cento del prodotto interno lordo alla fine del 2017; in Francia, Spagna, Germania e nei Paesi Bassi i picchi raggiunti negli anni di crisi sono stati di circa il 4, il 5, il 12 e il 13 per cento. Tuttavia, dalla metà di maggio il valore di mercato dei titoli di Stato si è ridotto: per quelli con durata superiore all’anno le perdite sono state, in media, dell’8 per cento, mentre il valore di Borsa per le banche è calato del del 35 per cento, rispetto a una media del 20 per il complesso delle società quotate. In cinque mesi il costo per raccogliere fondi sotto forma di obbligazioni è più che raddoppiato e di qui a un anno scadono bond bancari per 110 miliardi, circa il 40 per cento di quelli in circolazione. Gli intermediari finanziari detengono titoli pubblici per circa 850 miliardi, è evidente l’impatto dello spread in una congiuntura economica che Ignazio Visco ha definito “meno favorevole”.
Il “nuovo Creval” non piace agli investitori. Per Carige il fallimentoè “una possibilità reale” ha sentenziato l’agenzia di rating Fitch
Gli stress test della Banca centrale europea, i cui esiti sono stati diffusi ieri, hanno riguardato le banche maggiori, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Ubi e Bpm (Banca popolare di Milano). Tutte hanno superato la prova: Intesa è risultata la migliore, Unicredit è al secondo posto. E’ stato escluso dall’indagine il Monte dei Paschi di Siena che resta sotto osservazione, ma sono fuori anche la Popolare di Bari e il Creval (Credito Valtellinese); per la Carige (Cassa di risparmio di Genova) c’è un esame particolare, l’indice patrimoniale sarebbe inferiore al minimo (5,5 per cento), ma ha tempo fino al primo dicembre. Il ministro dell’Economia si è detto tranquillo: le banche oggi nel mirino debbono trovare capitali, ma non sono in dissesto. Non la pensa esattamente così la Borsa: le azioni della Carige scendono a picco (-25 per cento a ottobre, -74 per cento in un anno), il Monte dei Paschi di Siena ha perso nell’ultimo mese il 33 per cento e il 68 per cento rispetto al novembre 2018, un’azione del Creval è passata da 0,4 euro a 0,09; quanto a Bari, siamo alle carte bollate. Non saranno banche in dissesto, ma non sono state ancora messe in sesto.
La Bpb, la più grande popolare del Mezzogiorno, ha perso 100 milioni di euro nel primo semestre, la quotazione in Borsa è stata rinviata da settembre a dicembre: il valore delle azioni dimezzato le rende invendibili. I vertici sono stati multati dalla Consob per 1,95 milioni (le sanzioni sono state sospese dalla corte d’appello) e sono sotto inchiesta della magistratura. Secondo la Consob, nei prospetti per gli aumenti di capitale del 2014 e 2015 ci sarebbero state informazioni incomplete sulla determinazione del prezzo delle azioni. Le sanzioni più alte sono quelle da 60 mila euro per il presidente Marco Jacobini, figlio di Luigi che ha fondato la banca nel 1960, e da 40 mila euro per Vincenzo De Bustis, direttore generale dal primo settembre 2011 al 30 aprile 2015. La banca negli anni è cresciuta comprando banchette sull’orlo del crac come la Tercas, la Cassa di Teramo che, secondo alcuni, è l’inizio di tutti i guai.
Quasi tutte le case dei baresi da mezzo secolo in qua sono state acquistate con i soldi della popolare che cadevano a pioggia sull’intera città, non manna dal cielo, perché Jacobini e figli non fanno nulla gratis. Ma la città era loro riconoscente tanto che la statua di san Nicola portata in processione si fermava ogni anno davanti alla casa della potente famiglia. Finché l’idillio si è rotto un anno fa, con una irruzione della polizia tributaria inviata dalla procura. L’accusa è di truffa, associazione a delinquere, ostacolo alla vigilanza, false dichiarazioni alla Consob. Già nel 2013 la Banca d’Italia aveva emesso un parere parzialmente sfavorevole sulla gestione della banca, tuttavia un anno dopo l’aveva spinta ad acquistare la Tercas per evitare che fallisse. L’operazione venne finanziata con un aumento di capitale, circa 800 milioni di euro accogliendo 20 mila nuovi soci presso i quali sono state collocate obbligazioni per 200 milioni con una cedola del 6,5 per cento l’anno, una enormità tenendo conto che il costo del denaro allora era già vicino a zero. Quando è arrivata la riforma delle popolari, il consiglio di amministrazione ha tagliato del 20 per cento un valore azionario evidentemente gonfiato, innescando una corsa a vendere. “Ridateci i nostri soldi”, di nuovo. Secondo i magistrati alcuni soci eccellenti sono riusciti a liberarsi del loro fardello giusto in tempo, i vertici della banca negano ogni accusa. Scende in campo anche Michele Emiliano, che grida al complotto giurando: “Difenderemo la banca con le unghie e con i denti”.
Intesa è risultata la migliore, Unicredit è al secondo posto. Esclusa dall’indagine Mps che resta sotto osservazione
Il copione è identico, da Bari a Vicenza, da Arezzo a Siena, da Montebelluna a Sondrio, da Emiliano a Zaia passando per Renzi; anche gli attori indossano le stesse maschere: il banchiere prima prodigo poi fedifrago che dagli altari scende nella polvere, la Banca d’Italia che vigila e chiude la stalla quando i buoi sono scappati, la politica locale e quella nazionale che inzuppano il pane, la giustizia che colpisce con la carta carbone. Lo stesso si può dire per la difesa degli “ignari sottoscrittori” obbligati a comprare azioni e obbligazioni in cambio di prestiti. Le vecchie popolari non si reggevano in piedi, il conclamato legame con il territorio era ridotto a scambio clientelare, politico, economico e sociale; opache, arretrate, per lo più mal gestite, dovevano essere trasformate già da molto tempo. La Banca d’Italia lo chiedeva fin dagli anni 90, ma la riforma è arrivata troppo tardi e in un momento sbagliato, cioè quando la crisi ha lasciato nella loro pancia una quantità enorme di prestiti che non verranno mai restituiti. Altro che deteriorati, sono marci e possono essere venduti agli spazzini del credito, ma a prezzi da liquidazione. Lo choc del cambiamento s’aggiunge allo choc della crisi, mentre chi resta attaccato al vecchio modello soffia sul fuoco. Così è accaduto negli ultimi due anni e così continua nell’era populista.
Il Credito Valtellinese non sta più in Valtellina e forse finirà in Francia. L’ultima assemblea s’è tenuta a Milano non a Sondrio, ma la vera novità è che da meno di un mese è in mano a un imprenditore francese domiciliato in Svizzera, Denis Dumont, proprietario dei supermercati Grand Frais, sostenuto da azionisti come la Algebris di Davide Serra, Blackrock, Crédit Agricole e fondi di investimento che hanno in mano il capitale. Il ribaltone è frutto di una mutazione cominciata nel 2016 quando la banca popolare è diventata una società per azioni. Per ottant’anni era rimasta sostanzialmente la stessa, operava solo ai piedi delle Alpi in base ai principi solidaristici sui quali era stata fondata nel 1908. Poi erano cominciate le prime acquisizioni diventate una vera febbre negli ultimi vent’anni. Altro che Sondrio: la Sicilia, le Marche, il Lazio. Dopo la quotazione a Piazza Affari, deve ricapitalizzare per 700 milioni di euro, sei volte più del valore di Borsa, per compensare perdite di un miliardo e 100 milioni e un crollo del 90 per cento del proprio valore. L’aumento, che si è chiuso nei giorni scorsi, ha spazzato via i piccoli azionisti, oggi hanno appena il 10 per cento, eppure “il nuovo Creval” come viene chiamato, non piace agli investitori se nell’ultimo mese ha perduto ancora il 16 per cento. Toccherà al nuovo presidente Luigi Lovaglio, che viene da Unicredit, risanare la banca e non sarà un compito facile. Mentre l’Agricole dicono sia pronto ad apparecchiare.
Le vecchie popolari non si reggevano in piedi, il legame con il territorio era ridotto a scambio clientelare, politico, economico
Per la Carige il fallimento è “una possibilità reale” ha sentenziato l’agenzia di rating Fitch. Anche qui la storia segue il gran canovaccio delle banche italiane: sostegno al potere e all’economia locale, grazie al ruolo preponderante della Fondazione (esattamente come a Siena per il Montepaschi), balzi in avanti senza rete che diventano salti mortali, un banchiere ambizioso, osannato da tutti. Il suo nome è Giovanni Berneschi ed è stato condannato a otto anni e sei mesi. Al culmine della sua parabola la Carige era la quinta banca italiana per capitalizzazione borsistica, sembrava che nemmeno la crisi del 2008 potesse fermare la sua corsa. Invece, si sono accumulati miliardi su miliardi di crediti concessi alle imprese locali e mai restituiti. La Banca d’Italia manda gli ispettori e nell’estate del 2013 Berneschi viene esautorato lasciando l’istituto in mano alla procura. Il tentativo di salvare capra (la Fondazione) e cavoli (i crediti deteriorati) è bocciato nel 2014 dalla Bce, a questo punto si fa avanti Vittorio Malacalza tra un intenso fuoco di sbarramento. “Da quando sono entrato – si lamenta l’imprenditore di origine piacentina cresciuto come fornitore di Italsider e delle autostrade – ho trovato una forte resistenza al cambiamento”. Sono anni di pulizia dei conti, durante i quali vengono sfiduciati due amministratori delegati. Il 21 settembre scorso Malacalza vince il suo ultimo scontro, diventa l’azionista di riferimento con il 27 per cento e con 7 consiglieri su 11 colloca i suoi uomini: Pietro Modiano presidente, Lucrezia Reichlin vice, Fabio Innocenzi amministratore delegato. Adesso deve mettere mano ancora al portafogli. Secondo stime di mercato servono altri 200 milioni di euro dopo i 560 spesi a dicembre 2017.
Lo Borsa o la vita, vale anche per il principale azionista del Montepaschi, salvo il fatto che si tratta del Tesoro il quale ha speso 5,4 miliardi di euro per il 68,2 per cento delle azioni. Oggi l’intero capitale è quotato 1,694 miliardi. La perdita è pesante e ricade in ultima istanza sui contribuenti. Non solo: lo stato è in trappola, dovrebbe uscire, ma non può; cerca per il Monte una moglie ricca, ma finora nessuna è disposta a giocarsi la propria dote; la Ubi, candidata della prima ora, lo ha detto chiaramente. Mps non può fallire, anch’essa è troppo grande, per lo meno per le dimensioni italiane, ed è politicamente troppo sensibile. Dunque, politique d’abord. Altro che liberismo, neo o paleo che sia, qui impera il politicismo.
Ovunque in Europa le banche sono i pilastri del potere, ma solo in Italia sono state anche i puntelli dei partiti e in gran parte lo sono ancora, accompagnando in modo impressionante le stesse trasformazioni politiche. E lo dimostra proprio la storia delle crisi bancarie. Negli anni 90 crollano i due storici istituti meridionali, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia, proprio mentre si dissolve la Democrazia cristiana con la quale erano vissuti in un rapporto osmotico. Nel decennio successivo la girandola di fusioni dalla quale nascono i nuovi gruppi bancari ha evidenti ramificazioni politiche. Il matrimonio della Banca Intesa con il Sanpaolo di Torino avviene sotto l’egida di Romano Prodi. Risponde Unicredit con Capitalia che guarda sia al centrodestra berlusconiano sia al centrosinistra. Il Monte dei Paschi di Siena – banca di sistema come poche, dipendente dall’amministrazione socialcomunista e dai potentati locali – non vuol restare fuori e corre a comprare la cattolicissima Antonveneta infilandosi nel buio tunnel dal quale non è ancora uscito. Le ragioni dell’economia si piegano alla politica, oggi più che mai. E, per citare un grande banchiere di una volta, “abisso chiama abisso”. Le banche sono in difficoltà? Le aiuteremo, promette il governo. A parte che non sa come, è chiaro che finisce in un circolo vizioso. Il miglior aiuto sarebbe accompagnare il cambiamento del sistema creditizio, proteggendo i risparmiatori. Oggi soffrono di più le banche intermedie, troppo piccole per competere con le grandi, troppo grandi per occupare una nicchia di eccellenza. L’idea di presidiare il territorio non ha più senso perché il territorio ha perso i suoi confini, le imprese che vanno bene guardano all’estero, lo stesso vale per i risparmiatori: anche poche migliaia di euro vengono investite in fondi o in pacchetti finanziari che hanno dentro il mondo intero. E da questo mondo non può scendere nessuno, nemmeno il più accanito sovranista.