Lo spread sale a nord
Dalle regioni del Dio Po è in atto una fuga dai titoli pubblici italiani molto più marcata che al sud
Roma. “Sullo spread non ho dubbi: non potrà che scendere. E se qualcuno gioca alla speculazione il governo non lo permetterà”. Se ieri Matteo Salvini intendeva, come si dice, rassicurare i mercati e minacciare as usual i poteri forti di turno, ha clamorosamente sbagliato bersaglio. A far salire lo spread fino a oltre 336, ormai ben sopra l’Ungheria e non troppo sotto la Grecia, è stato infatti, più dell’imminente bocciatura europea della legge di Bilancio, il fiasco del collocamento del Btp Italia (BtpI), titolo quadriennale indicizzato all’inflazione interna con tasso minimo dell’1,45 per cento. Poiché il BtpI è destinato alla clientela di sportello (solo giovedì l’invenduto verrà offerto a banche e fondi), sono stati i piccoli risparmiatori a disdegnare la prima emissione tricolore del governo gialloverde.
Il problema non è il tasso, più di tre volte e mezzo quello dello stesso titolo emesso con successo a maggio, ma l’affidabilità attribuita ai manovratori del debito pubblico, cioè Lega e M5s. Ma da dove viene la bocciatura? Soprattutto dal nord, dunque dalla terra del Dio Po che a Salvini sta inviando segnali di malessere sempre più numerosi. I dati di Banca d’Italia, Intesa-Centro Einaudi, Assogestioni e Unimpresa, concordano: nei portafogli di tutte le famiglie del nord è in atto una fuga dai titoli pubblici italiani molto più marcata che al sud. Fuga che a giugno 2017, per Bankitalia, aveva raggiunto il 16,9 per cento nel nord-ovest, con punta del 17,2 in Lombardia, e il 16,5 nel nord-est, con il 19,8 in Friuli Venezia Giulia. Al sud l’abbandono medio dei Btp è del 13,6 per cento, con minimo dell’1,1 in Puglia. A salvare quel poco di titoli di stato ancora in portafoglio era stato proprio il successo dei collocamenti di Btp Italia, che in 12 emissioni su 14 hanno fatto registrare il pieno di sottoscrizioni il primo giorno: con record nel 2013, ma anche a maggio scorso, con remunerazione di 0,4 per cento ma spread ad un terzo di oggi, il primo giorno furono collocati 2,3 miliardi.
“Se lo spread sale gli italiani ci daranno una mano”, aveva detto Salvini.
Il suo nord non la pensa così
Lunedì i BtpI sottoscritti erano stati 481 milioni, ieri a metà giornata si sono raggiunti i 600 mentre il Tesoro contava di incassare 7-9 miliardi. E la defezione ha riguardato appunto per due terzi il nord, sia tra chi si è presentato in banca sia tra chi ha agito attraverso intermediari. Sono questi gli speculatori secondo Salvini? Eppure si tratta dei risparmiatori che in tempi di crisi non solo hanno aumentato i depositi ma che in 690 mila hanno sottoscritto i Pir, fondi azionari per piccole e medie imprese, e nel complesso hanno finanziato l’industria con 77 miliardi.
Il 9 ottobre, al G6 di Lione, Salvini diceva: “Lo spread? Gli italiani ci daranno una mano”. Tutti hanno capito che si riferiva ai Cir, progetto di titoli pubblici sovranisti esentasse per il mercato interno, un’idea del consigliere salviniano e sottosegretario Armando Siri. Se l’accoglienza riservata al BtpI è l’antipasto, è molto difficile che i Cir vedano la luce. E se questa è la fiducia nel Tesoro dei risparmiatori del nord (dove il risparmio privato supera di 5 volte il sud), e se è vero che si vota prima con il portafoglio e poi nelle urne, il capo della Lega dovrebbe davvero preoccuparsi. Non è certo l’unico segnale di malcontento che gli arriva dalla Padania e dintorni. La stessa decisione delle banche cooperative di ignorare la controriforma voluta dalla Lega va contro la propaganda “del cambiamento”. E nelle inchieste sul ribollire sulle sponde del Po pubblicate nei giorni scorsi il Foglio ha riscontrato la bocciatura di altri cavalli di battaglia, dalla flat tax irrealizzata allo smantellamento della riforma Fornero in nome di quota 100: “Non è vero che per ogni pensionato anticipato le aziende assumeranno due o tre giovani, mentre si disperderanno esperienze preziose” dice Maria Cristina Piovesana, presidente vicaria di Assindustria di Treviso e Padova. Lo stesso Alberto Brambilla, massimo esperto previdenziale leghista, afferma che “potrà andare in pensione in anticipo solo chi opterà per un assegno inferiore, calcolato con il metodo contributivo. Credo che ne usufruiranno 200 mila su 430 mila aspiranti pensionati. E’ una questione di sostenibilità, ma anche di equità verso chi avrà in futuro una pensione solo contributiva”. Silurati i buoni del tesoro autarchici, sgonfiato il soufflé della speculazione (al contrario, chi ha in portafoglio Btp svalutati dall’aumento dello spread può prendersela proprio con il governo), con la preoccupazione che accomuna risparmiatori, banche e aziende, con il ridimensionamento di “stop Fornero”, e con la flat tax finita nel cestino, che cosa dirà Matteo Salvini alla parte produttiva dell’Italia alla quale deve la sua ascesa?