Così Di Maio ha aumentato il precariato
“Morte al Jobs Act”, disse il ministro dello Sviluppo economico. Ora, col reddito di cittadinanza, gli sgravi a chi assume a tempo determinato
Roma. L’illusione della “dignità” già non c’è più: crollata sotto il peso di una realtà – quella del mercato del lavoro italiano – che non accetta d’adeguarsi, neppure per decreto, al vento del cambiamento. E così quella flessibilità che a parole è stata tanto condannata, e combattuta in modo assai sconclusionato nel primo propagandistico provvedimento voluto da Luigi Di Maio, nei fatti viene ora riammessa e incentivata attraverso l’altro totem del M5s: il reddito di cittadinanza. E lo stesso decreto dignità, a quanto pare, finirà con l’essere assai ridimensionato. “Stiamo valutando dei correttivi”, confessa infatti il leghista Dario Galli.
Parla con lombardo pragmatismo, Galli, sottosegretario allo Sviluppo economico. “Se i dati definitivi sulle nuove assunzioni di ottobre e novembre dovessero confermare le tendenze già evidenziate dalle rilevazioni precedenti – dice al Foglio – è chiaro che qualche ritocco si renderebbe necessario”. D’altronde i dati dell’Inps su settembre, al di là del giubilo di maniera, erano stati accolti, ai piani alti del Mise, con una certa angoscia: meno 50 mila nuovi contratti a termine e meno 33 mila in somministrazione, a fronte di sole 14 mila trasformazioni in tempo indeterminato, rispetto allo stesso mese dello scorso anno. E per questo, nonostante il ferreo ottimismo di Pasquale Tridico che del “decreto dignità” ha ideato e scritto corpose parti, alla fine anche lo stato maggiore del M5s ha cominciato a prendere in seria considerazioni le proposte di revisione avanzate dalla Lega. Che riguardano sostanzialmente due aspetti: da un lato l’obbligo delle causali in caso di rinnovo del contratto a termine oltre i 12 mesi, dall’altro l’addizionale contributiva dello 0,5 per cento in caso di rinnovo del contratto a tempo determinato. Due paletti considerati ora, non solo dai leghisti, troppo stringenti.
Ma in fondo anche il reddito di cittadinanza, nella nuova formulazione che va prendendo nel corso della trattativa con Bruxelles, registra una riscoperta della flessibilità da parte del M5s. “In verità l’idea di coinvolgere le imprese nel programma era un’idea nostra”, ripete Laura Castelli, quando le si chiede conto della rimodulazione del reddito. “E anche gli sgravi alle imprese che assumono – insiste il sottosegretario all’Economia, che sta lavorando alla misura insieme alla sua squadra di consulenti – era già contenuta nella nostra proposta originaria”. Vero, e forse anche per questo, quando si attribuisce la paternità della svolta ai leghisti Armando Siri e Claudio Durigon, nel M5s c’è chi, come il senatore Daniele Pesco, s’impermalisce. “L’idea c’era già”, dice Pesco, presidente della commissione Finanze a Palazzo Madama. Solo che, nel primigenio disegno grillino, l’incentivo mensile era riservato solo ai datori di lavoro che assumessero “con contratto di lavoro a tempo indeterminato” e che, attraverso quei nuovi innesti, garantissero “un incremento occupazionale netto per l’impresa beneficiaria”. Il tutto era finalizzato a “promuovere forme di occupazione stabile”, e insomma a evitare licenziamenti strumentali.
Ora, invece, il nuovo reddito di cittadinanza, quello a impatto ridotto, segue una logica assai diversa. L’idea resta infatti quella di coinvolgere le aziende, destinando ai datori di lavoro, sotto forma di sgravio fiscale, la quota percepita dal lavoratore che viene assunto: un massimo quindi di 780 euro al mese, che però in molti casi, quando cioè il neoassunto riceva solo un’integrazione al suo reddito, sarebbe inferiore. La novità, però, è che l’incentivo andrebbe non solo a chi assume in modo stabile. Nelle bozze che circolano, e che andranno poi a costituire il testo del collegato alla manovra, si parla infatti di due-tre mensilità di sgravio per le assunzioni a tempo determinato e cinque-sei per l’indeterminato. Cifre confermate al Foglio dal sottosegretario leghista al Lavoro Durigon, impegnato sul dossier insieme alla Castelli. Impostazione, dunque, per nulla in discontinuità col Jobs Act, ma che si sostanzia su incentivi di portata ridotta (in media, gli stessi previsti nel secondo anno di esonero della riforma renziana che, al contrario del primo, si erano rivelati ben poco efficaci).
Si tratta di una svolta, in ogni caso, dettata da una presa d’atto che il mercato del lavoro italiano è quel che è, ma che di certo, a meno di eventuali correzioni ancora da aggiungere, spingerà gli imprenditori a optare in massa per il tempo determinato, vista l’esigua differenza tra le due forme d’incentivo, e magari a passare da un neoassunto all’altro per potere costantemente usufruire di nuovi incentivi. Per chi si vantava, non più tardi di quattro mesi fa, di avere “dato un colpo mortale al precariato”, “licenziando il Jobs Act” e gli “assassini politici” che lo avevano concepito, è una capriola notevole.