Lasciate in pace Vivendi
Ragioni per non scottarsi le mani con il socio francese di Tim, ora più forte di Elliott, di Cdp e del governo
Roma. Il cda di Tim, riunito giovedì scorso, non ha convocato l’assemblea dei soci nella quale il maggior singolo azionista Vivendi (che ha il 23,94 per cento) potrebbe riunire una maggioranza in grado di ribaltare gli equilibri attuali, che ruotano intorno al fondo Elliott (8,8 per cento) e Cassa depositi e prestiti (4,2): azionisti che il 4 maggio imposero l’attuale cda con una conta sul filo di lana, il 49,84 dei voti contro il 47,18 rimasto a fianco del gruppo multimediale francese. La convocazione di una nuova assemblea, che non era nell’ordine del giorno e che Vivendi ha sollevato tra le “varie ed eventuali”, dovrebbe figurare in calendario nella prossima riunione di board del 17 gennaio, per la quale i francesi hanno già ottenuto una vittoria marginale ma indicativa: tra poco più di un mese il cda fisserà la data per rinnovare o meno i revisori dei conti – attualmente PwC – decisione che in base a un parere dei sindaci richiede appunto di convocare i soci, e quindi non sarà più possibile rinviare l’assemblea. Scatta il conto alla rovescia per un appuntamento cruciale, in attesa del quale stando ai rumor, Elliott e Cdp potrebbero perdere per strada qualche fondo che sette mesi fa si era schierato con loro. La stessa riluttanza di Elliott a riunire gli azionisti viene interpretata come segnale di debolezza: il fondo americano è il maggior fondo mondiale attivista cioè speculativo, non investitore strategico; ma i fatti di questi mesi non gli hanno certo consentito di portare a casa i risultati promessi ai propri investitori. Il primo rastrellamento del 6 per cento di titoli Telecom Italia (ragione azionaria di Tim) da parte di Elliott è del marzo 2018; dopo poco in accordo con JP Morgan il fondo comunicò alla Sec, la commissione di controllo della Borsa americana, di essere salito quasi al 9 e avere opzioni per un potenziale 13,73. L’obiettivo del ceo Paul Singer era di accrescere rapidamente il capitale investito modificando il piano industriale di Tim, regola seguita in ogni sua operazione e che ha fruttato un ritorno medio annuo del 14 per cento. Per Tim si trattava, in parte, di scorporare e cedere asset come Sparkle (la rete ottica di connessione al resto del mondo).
E soprattutto di valorizzare e vendere la rete interna a banda ultralarga, in costruzione, all’unico acquirente possibile: lo stato italiano, che ha iniziato con Open Fiber a realizzare una propria rete, inizialmente destinata a raggiungere le aree non coperte da Tim. Le premesse c’erano, da quando il governo Gentiloni e l’ex ministro Carlo Calenda rivendicarono la strategicità dell’infrastruttura; e l’ingresso in Tim di Cdp, che è co-azionista con Enel di Open Fiber, confermava questo orientamento. Che però non è mai stato formalizzato né da Open Fiber (Enel, che non ha dimenticato l’esperienza fallimentare nella telefonia di Wind, è scettica), né soprattutto dalla Tim a controllo Elliott e Cdp, che ha confermato il piano industriale dell’ex ad Amos Genish, già espresso da Vivendi e lasciato al suo posto, finché non è stato sfiduciato, rimpiazzato da Luigi Gubitosi e tornato consigliere in quota francese. Quel piano parlava di integrazione, non di nazionalizzazione. Nelle ultime settimane però è entrato come un elefante in cristalleria l’emendamento al decreto fiscale del M5s, personalmente sponsorizzato da Luigi Di Maio, che prevede di conferire le due reti, privata e pubblica, a una nuova compagnia sotto controllo del Tesoro. Il problema è che espropriare la rete alla Tim comporterebbe un rimborso proporzionale a Vivendi, e sarebbe un rimborso salato visto che l’infrastruttura fin qui realizzata dai privati è otto volte più estesa di quella di Open Fiber: a luglio scorso quando le due aziende ragionarono di una joint venture che si doveva chiamare Flash, le quote societarie vennero calcolate rispettivamente all’80 e 20 per cento. L’apparente sottovalutazione di Tim è dovuta al fatto che questa ha 60 mila dipendenti, 30 mila dei quali in esubero, e 25 miliardi di debiti (neppure Open Fiber scherza, ha chiesto crediti bancari da 3,5 a 5 miliardi). Su questi dati, più che sul capitale di Borsa di Telecom, che da maggio si è ridotto a 8,5 miliardi perdendo il 40 per cento, si deve ragionare se il governo intende andare fino in fondo nella pervicacia nazionalizzatoria. Paiono campati in aria i paragoni con Terna, Snam e Rfi, reti ottenute per scissione (e nei primi due casi quotazione a parte) di asset già di totale proprietà di aziende del Tesoro: Enel, Eni e Fs. Lì lo stato ha incassato, qui dovrebbe pagare. Ora Vivendi ha il coltello dalla parte del manico, non Elliott, Cdp e il governo. Se i francesi ribaltano gli equilibri in assemblea, si riprendono il controllo e dettano loro le condizioni. Se vedono avvicinarsi un esproprio “di cittadinanza” piantano tutto non prima di avere intentato al governo una causa epocale, che paralizzerebbe Tim, oltre a scaricare tutti i 60 mila dipendenti sulla parte pubblica. Dopo le varie performance di Di Maio come ministro dello Sviluppo la fantasia può superare la realtà, o sfracellarcisi contro.