La disoccupazione giovanile non si risolve con le pensioni anticipate
I dati sulla crescita italiana e gli esempi degli altri paesi dimostrano che si lavora di più lavorando tutti
In un’intervista alla Stampa del 3 dicembre scorso il sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, ha dichiarato che per quanto riguarda la riforma delle pensioni “non c’è nessun negoziato in corso con Bruxelles”. Quota 100 è “una chiara scelta politica” che assicura “nuovi ingressi nel mercato del lavoro” e quindi il ricambio generazionale, “in un contesto in cui abbiamo una disoccupazione pari al 33 per cento, davvero troppo alta”.
Ha ragione Durigon quando sostiene che questa percentuale sia troppo alta. Si tratta della terza più elevata in Europa – dopo la Grecia (43,6 per cento) e la Spagna (38,6 per cento) e pari al doppio della media europea. La percentuale sale al 37,3 per cento per le giovani donne e al 55,6 per cento per le giovani donne del Sud. Fa bene, quindi, il governo a mettere la lotta alla disoccupazione giovanile tra le priorità dell’agenda di politica economica. Resta, però, da chiedersi se mandare le persone in pensione in maniera anticipata sia lo strumento più appropriato per vincere questa sfida. Dall’analisi dei dati, della dinamica del mercato del lavoro e della crescita economica sembrerebbe proprio di no.
In primo luogo, i dati.
Il confronto internazionale mostra che non vi è una relazione tra il tasso di occupazione degli over 65 e il tasso di disoccupazione degli under 25. Se mai è vero il contrario. Nei paesi dove l’occupazione degli anziani è elevata, lo è anche quella dei giovani. A questa critica, diversi politici della maggioranza rispondono che la relazione esiste sicuramente nel settore pubblico: basta indire nuovi concorsi per sostituire chi è in uscita. Tuttavia, se l’obiettivo finale è quello di aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione, forse, prima dei concorsi bisognerebbe implementare una riforma capace di ridisegnare il perimetro dello Stato e di valorizzare il lavoro del personale già presente. Del resto, solo dopo aver definito “chi fa cosa” e “come lo fa”, è possibile avere un quadro chiaro delle risorse eventualmente da integrare. Nella manovra, però, di questi interventi non c’è traccia.
In secondo luogo, l’offerta di lavoro. Chi ritiene che per far lavorare un giovane sia necessario far smettere un anziano parte dal presupposto che il numero dei posti di lavoro sia fisso, e che rimarrà fisso. Seguendo questa logica, il governo sembra riconoscere che le politiche economiche che sta mettendo in campo non avranno nessun impatto sul mercato del lavoro. Stando così le cose, delle due l’una: o si ammette che la manovra non crea sviluppo e, quindi, nuovo lavoro e - allora - la stima dell’1,5 per cento andrebbe significativamente rivista al ribasso oppure si ammette che l’occupazione giovanile aumenta con la maggiore crescita e non con il pensionamento anticipato degli anziani.
Infine, la crescita. L’Istat ha calcolato che nel terzo trimestre dell’anno in corso, l’economia ha subìto una contrazione dello 0,1 per cento, la prima dopo quattordici trimestri positivi. E, forse, non l’ultima: sono sempre di più i segnali che fanno pensare che anche il quarto trimestre potrebbe avere il segno meno. Il rischio di una recessione è concreto. Considerando che il tasso di occupazione italiano è 10 punti sotto la media europea (nel 2017, 62,3 per cento contro 72,2 per cento) e quello femminile 14 punti (52,5 per cento contro 66,5 per cento), per ritornare a crescere, il paese avrebbe bisogno di più persone che lavorano – a cominciare dai giovani – non di più persone in pensione.
A questo proposito, basterebbe copiare quello che fanno gli altri. I paesi dove la disoccupazione giovanile è un terzo della nostra, l’accesso al mondo del lavoro viene favorito da percorsi come l’alternanza scuola lavoro, che consente agli studenti di imparare una professione durante il periodo scolastico. Il governo, invece, si sta indirizzando verso un ridimensionamento di questo strumento: la legge di Bilancio prevede tagli alle ore minime e agli stanziamenti. A questo punto, non resta che sperare nei “numerini” annunciati in questi giorni. Secondo diversi esponenti della maggioranza, quando esce un anziano, entra “un” giovane, forse “due”, ma anche “tre”.