Il bluff della riforma delle pensioni e della platea della “quota cento”
Anziché smontare la Fornero, la controriforma smantella se stessa. Ma a Bruxelles non può bastare. Così le pensioni sono diventate il grande problema con l’Europa
Roma. La riforma delle pensioni Monti-Fornero – la più importante degli ultimi decenni, lodata nei documenti di finanza pubblica da tutti i governi successivi (incluso questo) – fu fatta in venti giorni, in una situazione d’emergenza, con l’economia in recessione, lo spread oltre i 500 punti e il rischio che l’Italia perdesse l’accesso ai mercati finanziari (e che le pensioni non riuscisse a pagarle). E’ quindi comprensibile che contenesse errori, come la questione degli “esodati” di cui non erano note stime attendibili. La controriforma Salvini-Di Maio arriva invece a sette anni di distanza, con tutti i dati disponibili, l’economia in crescita (ora non più), lo spread basso (ora non più) e dopo sei mesi di governo non c’è ancora un testo. Anzi, si può dire che non è neppure una controriforma, ma un aborto. La “quota cento” aveva, come ama dire Matteo Salvini, l’obiettivo di “smantellare” la Fornero e invece, giorno dopo giorno, sta smantellando se stessa. Per evitare la procedura d’infrazione il premier Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia Giovanni Tria nell’incontro con Jean-Claude Juncker hanno proposto di ridurre il rapporto deficit/pil dal 2,4 al 2,04, aggiungendo “qualcosa” (Conte dixit) sul piano di dismissioni di immobili pubblici. In realtà uno dei punti più critici nelle contestazioni della Commissione è proprio la controriforma delle pensioni. A livello quantitativo, la misura sulle pensioni dovrebbe costare due miliardi meno del previsto nel primo anno, facendo così ridurre il deficit. A livello qualitativo, non sarà più una controriforma strutturale, avrà una durata triennale, ergo niente “smantellamento” della riforma Fornero ma una parentesi temporanea. In questo modo, comunque, i risparmi non ci sono (visto che i due miliardi verranno spesi nel biennio successivo) e nemmeno potrebbe bastare alla Commissione che ha paletti rigidi per scontare le spese one-off (una tantum). Questa versione di “quota cento” contraddice la retorica e gli assunti di politica economica del governo.
Dal punto di vista della propaganda politica, la retromarcia sulle pensioni è sempre stata descritta come una sorta di “risarcimento” per le “vittime” della riforma Fornero. C’è da dire che nel corso di questi sette anni ci sono già state otto salvaguardie che hanno già in qualche misura “risarcito” oltre 170 mila cosiddetti “esodati”, senza contare altri interventi come l’Ape social (oltre 40 mila persone). Il punto è che la platea della “quota cento” gialloverde non è stata colpita in maniera diretta dalla riforma Fornero, nel senso che nel 2011 e negli anni successivi non aveva i requisiti, neppure con il sistema precedente, per andare in pensione. Il governo sta quindi “risarcendo” persone che non sono state colpite dalla riforma delle pensioni, se non nella stessa misura in cui sono state colpite anche le generazioni successive che però dopo il prossimo triennio non potranno usufruire della “quota cento”, perché non è una riforma strutturale, ma un finestrone che regala un’opportunità a una platea di fortunati, che dovrà anche affrettarsi (un po’ come nelle televendite) perché le pensioni verranno erogate fino a esaurimento fondo.
L’altra grande contraddizione riguarda il principio alla base della manovra. Il governo scrive nella Nadef che il pensionamento anticipato serve “per incentivare l’assunzione di lavoratori giovani”. L’idea è di per sé sballata e infondata, visto che il mercato del lavoro non è a numero chiuso, ma il governo rinnega i suoi stessi principi quando introduce meccanismi di disincentivo per l’accesso alla pensione anticipata per risparmiare. Di Maio garantisce che ci sarà una sostituzione di 3 a 1, tre giovani assunti per ogni pensionamento anticipato, una cifra fuori dal mondo. Il problema è che neppure nel pubblico impiego – laddove, a differenza del settore privato, lo stato può effettivamente regolare i flussi di entrata e uscita – è capace di garantire nell’anno una sostituzione di 1 a 1. Se davvero i circa 150 mila dipendenti pubblici aventi diritto optassero tutti per “quota cento”, la Pubblica amministrazione non riuscirebbero a bandire i concorsi e fare le nuove assunzioni entro l’anno. Infatti, proprio per il pubblico impiego, il governo prevede finestre di uscita di sei mesi. Il governo sbandiera una riforma che non lo è, propone un meccanismo di sostituzione anziani-giovani disincentivando l’uscita, annuncia un deficit eccessivo convinto di spendere di meno. Purtroppo questa confusione non è stata gratis, ma ci è già costata molto in termini di spread e di credibilità.