La lunga crisi di Carige
Cattiva gestione, crediti deteriorati, scontri ai vertici e ora i commissari della Bce
C’era una volta la banca del territorio. Comincia così la storia della Cassa di risparmio di Genova meglio conosciuta ormai come Carige. Ma comincia così anche la storia della Banca Popolare di Vicenza. O quella della Banca dell’Etruria. E non è diverso nemmeno l’incipit per il Monte dei Paschi di Siena, anche se su una scala più grande, almeno grande quanto la febbre del palio. Dietro il territorio, o talvolta sopra, c’è un banchiere di riferimento o di sistema che dir si voglia, non un “imprenditore bancario” come avrebbe voluto Enrico Cuccia, ma un gestore abile, ambizioso, potente, che maneggia il credito per dare ai ricchi con la compiacenza dei poveri, il beneficio dei politici e la benedizione dei vescovi. Le caselle sono sempre uguali, cambiate i nomi e i volti, ma il risiko resta lo stesso. Quando cadde la Lehman Brothers, dieci anni fa, a Vicenza come a Genova, ad Arezzo come a Siena si fecero grasse risate. Il sistema creditizio italiano è solido, sentenziarono gonfiando il petto e i valori delle loro attività, perché è ancorato alle sue radici locali, non specula in Borsa, non si pasce di turbofinanza, noi diamo i soldi alla gente che lavora. Poi le carte del domino hanno cominciato a cadere l’una sull’altra e il castello delle illusioni è stato travolto dalla valanga dei debiti che non verranno mai ripagati. Crediti, ammonticchiati come macigni, hanno schiacciato la prosopopea dei piccoli re di denari e la miopia di chi doveva vedere e non ha guardato. La mala gestio che ha portato a condanne per truffa come quella che ha colpito l’ottantenne Giovanni Berneschi, padre padrone della Carige per un quarto di secolo, c’entra eccome, sia chiaro, ma a fare chiarezza non sono i magistrati, la lettura giudiziaria della crisi bancaria italiana racconta solo una parte della storia che, sotto la Lanterna, è lunga e intricata.
La banca del territorio era sicura di sé. Poi il castello delle illusioni è stato travolto dalla valanga dei debiti che non verranno mai ripagati
Diceva un filosofo tedesco dell’Ottocento che non bisogna partire dall’inizio, ma dalla fine, perché è l’anatomia dell’uomo che ci fa capire l’anatomia delle scimmie. Anche a rischio di essere tacciati di storicismo, però, conviene cominciare gettando lo sguardo indietro nel tempo. Il Monte di Pietà fondato nel 1483 da Angelo Carletti, meglio conosciuto come fra’ Angelo da Chivasso, teologo affermato e apprezzato da Papa Sisto IV, viene trasformata in Cassa di risparmio nel 1846 su decreto di Carlo Alberto. Non era la maggiore azienda creditizia genovese e non lo sarà mai, soppiantata dalla Banca di Genova, che divenne poi Credito Italiano grazie all’apporto di capitalisti tedeschi e si legherà a doppio filo all’Ansaldo e alle grandi imprese del triangolo industriale italiano. Non era la più grande e nemmeno la più importante, eppure, come la maggior parte delle casse di risparmio, divenne anche lei la stanza di compensazione dei poteri locali: la politica, la curia, il porto, i notabili di vario ordine e grado. Nel secondo Dopoguerra il grande protettore sarà Paolo Emilio Taviani, figura storica dell’antifascismo cattolico e del potere democristiano. Senza dimenticare, naturalmente, la benedizione del cardinale Giuseppe Siri, grande esponente del tradizionalismo, che governò la diocesi per 41 anni, dal 1946 al 1987. L’equilibrio perfetto comincia a vacillare negli anni Settanta, quando la Cassa finanzia allegramente il gruppo fondato da Ernesto Fassio, uno dei tre grandi armatori italiani con Angelo Costa e Achille Lauro. L’acquisizione della società assicuratrice Levante fu considerata un favore al gruppo armatoriale e divenne una fonte di guai, anche giudiziari (la storia degli incroci perversi banca-assicurazione si ripeterà trent’anni dopo). Il decennio “nero” finì negli anni Ottanta, quando ormai i tavianei erano in difesa arroccata e cominciò il quindicennio di “regno” di Gianni Dagnino, già luogotenente di Taviani, poi deputato, segretario della Dc e primo presidente della regione. Dagnino riprese la Cassa dalle rovine e la guidò con mano di velluto in acque più tranquille sino alla sua morte precoce, al tavolo di lavoro, nel 1995.
Le banche italiane in media sono piccole, tecnologicamente arretrate, con una debole capitalizzazione. Le incognite del salvataggio
Comincia così l’era Berneschi, molto più ambiziosa e spregiudicata. Le indagini, a cominciare dalla fatale ispezione della Banca d’Italia conclusa nell’estate del 2013, mettono in luce un sistema parallelo costruito per i clienti eccellenti, due società fiduciarie che gestiscono in modo opaco un patrimonio di circa un miliardo di euro. Ci sono imprenditori, professionisti, redditieri, “evasori incalliti” secondo la procura di Genova, che spostano milioni di euro ciascuno tra l’Italia, la Svizzera, vari paradisi fiscali, avanti e indietro a seconda delle necessità. Finisce in manette il direttore generale Antonio Cipollina, ma a vacillare ormai è l’intero sistema Berneschi, che aveva fatto crescere la Carige fino a che era diventata la quinta banca italiana. Tanto in alto era arrivato quel semplice ragioniere entrato in banca subito dopo il diploma, che pontificava metà in italiano metà in genovese con la crème del sistema finanziario.
A poco a poco, però, la polvere esce dal tappeto e i miliardi prestati con grande abbondanza cominciano a non rientrare, s’accumulano anno dopo anno, superano i sette miliardi di euro. E qui comincia l’operazione Vita. Secondo l’accusa, il raggiro consiste nel far acquistare dal ramo assicurativo della banca, la Carige Vita Nuova, immobili di pregio, hotel e quote azionarie di imprenditori legati alla banca, a prezzi gonfiati. Il ricavato dà buoni frutti ai vertici della Carige e nello stesso tempo maschera la debolezza sia dei clienti sia della banca. Berneschi conta sulle sue protezioni eccellenti quanto trasversali: da Forza Italia con la famiglia Scajola (Alessandro, fratello dell’ex ministro Claudio, vicepresidente della Cassa) alle cooperative rosse e al Pd con Claudio Burlando, senza dimenticare un punto fermo, la curia genovese, grazie ai buoni rapporti con il cardinale Tarcisio Bertone. Un sistema sopravvissuto, adattandosi, alla caduta della Prima Repubblica. “Avanti ragazzi, cosa volete bere? Champagne, porto, vino di Borgogna?”. Nella Auerbachs Keller, festeggiava Mefistofele, c’è “libera scelta per tutti”.
Il 26 luglio 2013 i funzionari della Vigilanza concludono l’ispezione consegnando il loro rapporto alla Banca d’Italia e a Berneschi. In un drammatico faccia a faccia, ricordano i testimoni, gli impongono un rinnovo completo del vertice, la nomina di un amministratore delegato (prima il presidente faceva il bello e cattivo tempo), un consistente aumento del capitale e la vendita di alcuni rami di attività, tra i quali le assicurazioni. Dal 30 luglio al 2 agosto si dimettono otto consiglieri di amministrazione, il cda decade e comincia lo scontro interno. Il 30 settembre viene nominato un nuovo consiglio che vara un aumento di capitale da 800 milioni di euro, ma c’è lo scoglio della Fondazione che detiene il 46 per cento delle azioni, e insieme ad alcuni alleati supera il 50: nessuna fondazione di origine bancaria arriva a una tale violazione delle legge Ciampi, nemmeno quella del Montepaschi. I consiglieri dell’ente, di nomina per lo più politica, puntano i piedi, chiedono di vendere tutto il vendibile prima di metter mano al portafoglio. Ma non basta. Con l’aumento di capitale la fondazione scende al 19 per cento ed entra come azionista rilevante Vittorio Malacalza: prima compra il 10 per cento, poi sale al 15 e poco dopo al 17,5, diventa il socio di riferimento e rimette in discussione i vertici e l’intero piano industriale. Dunque, arriva un imprenditore che paga di tasca sua, è una svolta, salutata con sollievo dai “mercatisti” di ogni colore, mentre Berneschi viene condannato a otto anni per truffa.
Dagli anni di Taviani grande protettore all’èra Berneschi, più spregiudicata. Un sistema parallelo per i clienti eccellenti
Emiliano, nato a Bobbio nel 1937, Malacalza si trasferisce a Genova dove lavora all’Ansaldo, ma dai primi anni Sessanta prende in mano l’azienda paterna e diventa uno dei principali fornitori della società Autostrade. Vent’anni dopo acquista la Duferco e costruisce un gruppo siderurgico (laminati d’acciaio) di taglia europea, che viene venduto nel 2008 al gruppo ucraino Metinvest. Nel frattempo affida ai figli Davide e Mattia le attività industriali e si butta nella finanza e negli immobili. Nel 2009 diventa il secondo azionista del gruppo Pirelli, approfittando delle difficoltà finanziarie di Marco Tronchetti Provera, con il quale ingaggia un braccio di ferro che dura poco più di tre anni. Il divorzio trascina con sé una serie di contenziosi legali, ma alla fine di un complicato giro di passaggi azionari Malacalza esce e decide di investire il ricavato nella Carige. Siamo nel 2013 e saranno cinque anni di salassi. La banca brucia circa un miliardo di euro, ma il capitale non basta mai. L’imprenditore genovese arriva al 27,5 per cento, apre il portafoglio, sconfessa un manager dopo l’altro (si cambia a un ritmo di uno l’anno), rimette in discussione i piani industriali, a cominciare dall’uscita dalle assicurazioni, infine il 22 dicembre fa saltare il banco rifiutando l’ultimo aumento di capitale proposto dal presidente Pietro Modiano e dal direttore generale Fabio Innocenzi. Vuole prima vedere il piano industriale, non intende emettere un assegno a vuoto dopo aver perso oltre 400 milioni.
A questo punto che succede? Azzerato il valore azionario e sciolto il consiglio di amministrazione, la cassa di risparmio viene messa in amministrazione straordinaria dalla Bce (è il primo provvedimento del genere nell’area euro). Inutile è stato anche il tentativo di puntellarla attraverso un prestito di 320 milioni di euro da parte del Fondo interbancario formato da un pool di 90 banche. Se venisse trasformato in azioni, Malacalza scenderebbe al 5 per cento. Ma l’esperienza negativa del fondo Atlante con le banche venete consiglia prudenza. Gli emissari di Francoforte pensano che la Carige da sola non ce la faccia e propendono per un matrimonio con una banca più grande e più forte. Può darsi che Malacalza, stanco di staccare assegni, punti proprio su questo sperando di rifarsi in parte delle perdite. La Ubi Banca per ora s’è tirata fuori, si parla di Banca Bpm (la vecchia Popolare di Milano), di Unicredit o di Bnp Paribas. In tal caso, si tornerà a sventolare il tricolore bianco, rosso e verde contro il tricolore bianco, rosso e blu?
“La Cassa è un valore imprescindibile”, dice Andrea Benvenuti, assessore allo Sviluppo della regione Liguria, ed è già tutto un grido, “salvatela, salvatela”. Giuseppe Conte prima plaude all’intervento del sistema bancario, poi promette che non sborserà nessun soldo pubblico. Tra tante voci, non si è mai sentita quella del pur ciarliero Beppe Grillo, sempre attento alle vicende della sua città che usa trattare con guanto di velluto. Nemmeno un vaffa è stato esternato per la Carige la quale, pure, tra casta, establishment, dubbia onestà l’avrebbe meritato (sempre se si accettasse il paradigma pentastellato). Chissà, a pensare male si fa peccato… Ma la questione di fondo va ben oltre le querule litanie gialloverdi. La crisi della Carige è diventata un altro caso di studio e un campanello d’allarme: persino la Banca d’Inghilterra lo ha fatto risuonare in un suo rapporto pubblicato prima della fine del 2018. Le banche europee sono deboli, quelle italiane ancora di più e possono persino innescare una nuova crisi finanziaria, scrivono allarmati i giornali che muovono le Borse, il Financial Times e il Wall Street Journal.
La fatale ispezione della Banca d’Italia, conclusa nel luglio 2013. Il ricambio ai vertici, l’aumento di capitale e l’ingresso di Malacalza
La Carige è solo l’ultima goccia dopo il Montepaschi, la Popolare di Vicenza, Veneto Banca, le quattro casse del Centro Italia il cui salvataggio è costato carissimo al Pd e a Matteo Renzi; siamo all’ottavo “caso isolato” e, guarda caso, tutti rispondono allo stesso schema: banche locali, gestioni opache e clientelari, vertici inamovibili, fondazioni bancarie a nomina politica le quali hanno fatto da bancomat prima di averle trascinate nei loro pozzi neri, amministrazioni pubbliche e partiti che si sono spartiti poltrone e benefici. Eppure, se oggi fate una breve crociera nell’arcipelago dei social media, trovate soprattutto accuse all’Unione europea, all’intromissione della Bce e alla Banca d’Italia, all’euro e al bail-in mostro mistico degno di uroboro, il serpente che si mangia la coda. Cosa c’entra il bail-in con un credito erogato secondo logiche clientelari, con la crisi finanziaria del 2008, con la lunga recessione italiana, con la mala gestio, con gli Zonin, i Berneschi, i Mussari? Nulla, naturalmente, ma evocarlo serve in realtà a rivalutare un sistema clientelare, mascherando la restaurazione con quel tocco di populismo che oggi fa tanto consenso.
L’amara realtà è che le banche italiane in media sono ancora piccole, tecnologicamente arretrate, con una debole capitalizzazione, impantanate in mezzo al guado, mentre non c’è futuro per chi rimane nel mondo di mezzo. La Carige, stando ai conti del 2017, ha un milione di clienti, 4.200 dipendenti, 25 miliardi di attività, un capitale 2,6 miliardi, un fatturato di 516 milioni, perdite operative per 328 milioni, crediti deteriorati pari a 6,3 miliardi (1,2 dei quali ceduti al Credito Fondiario). Il bilancio può essere risanato, come in parte si stava facendo, ma ha una taglia per essere competitiva? Ogni salvataggio finisce sempre in un inutile spreco di soldi dei contribuenti, dei depositanti, dei risparmiatori, senza soddisfare le vere esigenze di chi lavora, produce, esporta. Oggi c’è bisogno di banche grandi e ben radicate internazionalmente per una clientela aperta al mondo che, con buona pace dei sovranisti, resta in maggioranza, e di banche specializzate capaci di offrire servizi à la carte per una società sempre più diversificata. Le prime hanno bisogno di ingenti capitali, le seconde molto meno, ma entrambe debbono essere attrezzate a resistere alle continue ondate di incertezza e instabilità finanziarie che segnano il presente e, molto probabilmente, il futuro. E’ un identikit ancora generico, che va riempito, ciò spetta non solo ai banchieri o agli esperti, ma soprattutto alle esigenze che vengono dal basso, cioè dal mercato. Il resto è propaganda, chiacchiera, in sostanza solo rumore.