Manifestazione del comparto dei pensionati dei sindacati (foto LaPresse)

Le pensioni di domani

Giuliano Cazzola

La riforma Fornero non sarà toccata, se non attraverso l’aggiunta di un percorso parallelo sovraccarico di limiti e divieti

“Chiacchiere e distintivo” diranno di Matteo Salvini quando, dopo tanti annunci, il governo varerà il testo del decreto legge sull’introduzione di “quota 100”, la regola che dovrebbe restituire agli italiani il diritto, ora negato, di andare in pensione. Addirittura, il suo collega “giallo” ha contrassegnato come “fatto” questo provvedimento di cui, per ora, si conoscono soltanto le risorse stanziate nell’apposito fondo e ridimensionate dopo i tagli imposti ai saldi di bilancio dalla Commissione europea (per fortuna, il pilota automatico del vincolo esterno non ha smesso di funzionare). Che cosa succederà della bistrattata riforma Fornero? Per anni il Truce ha “pasturato” il suo elettorato accusando di macelleria sociale il famigerato articolo 24 del decreto Salva Italia (convertito nella legge n.214/2011); non ha esitato a portare le truppe sotto la casa dell’ex ministro; ha spergiurato, urbi et orbi, che, con il suo arrivo al governo, quelle norme sarebbero state abrogate, stracciate, vilipese, nel giro di mezz’ora. Poi, strada facendo, la condanna al patibolo è stata tramutata in un vago “superamento” attraverso, appunto, la possibilità di andare in quiescenza facendo valere 62 anni di età e 38 di anzianità contributiva. Ma aspettiamoci una sorpresa. La riforma Fornero non verrà toccata, se non attraverso l’aggiunta di un percorso parallelo (sovraccarico di limiti e divieti), di carattere sperimentale per un triennio (quota 100, appunto) destinato a coesistere con i requisiti del pensionamento anticipato introdotti nel 2011. Se così non fosse, le due colonne d’Ercole (età e anzianità) in concorso tra di loro potrebbero determinare per molti soggetti la ripetizione dell’effetto Fornero: ovvero allontanare, di anni e di colpo, l’accesso alla pensione e soprattutto rendere non conveniente “quota 100”.

   

Mettiamo il caso che un lavoratore (il maschile non è causale perché saranno soprattutto i maschi residenti al Nord ad avvalersi della nuova via d’uscita), nato nel 1960, abbia iniziato a lavorare a 16 anni. Nel 2019 avrà maturato, a 59 anni, il requisito di 43 anni e 2 mesi ora previsto. Potrà andare in quiescenza grazie alle regole made by Fornero (che non richiedono un requisito anagrafico per usufruire del trattamento anticipato) senza dover aspettare altri tre anni per raggiungere quota 62. E’ altrettanto facile dimostrare che vi sarebbero, nel triennio 2019-2021, altri casi di lavoratori precoci (quelli che hanno cominciato a lavorare tra i 15 e i 20 anni di età ) a essere penalizzati dall’introduzione di un requisito anagrafico minimo (i 62 anni) per avvalersi del pensionamento anticipato. Inizialmente – prima di essere abrogata – anche la disciplina del 2011 prevedeva il limite dei 62 anni per il trattamento d’anzianità; ma non era un vincolo preclusivo del diritto al pensionamento; si limitava a una modesta penalizzazione economica per chiunque avesse intrapreso il percorso dell’uscita anticipata avendone maturato il requisito contributivo ordinario prima dei 62 anni. In sostanza, se dovesse sostituire in toto la disciplina vigente, il requisito dei 62 anni (di quota 100), potrebbe trasformarsi in una sorta di scalone, per diverse generazioni di baby boomers. L’età effettiva alla decorrenza delle pensioni di anzianità, ancora nel 2018, risulta mediamente inferiore ai 62 anni (il che significa che molti maturano i requisiti prima dei 60 anni).

 

Qualcuno potrebbe chiedere: “Ma se già oggi si va in pensione anticipata prima di aver raggiunto i 62 anni previsti dalla (contro)riforma gialloverde, dove sta il problema? Perché si dovrebbe spendere di più?”. La risposta è semplice. Nel “regime Fornero” non è previsto un requisito anagrafico. Ciò significa che i prepensionati del 2018 hanno dovuto far valere 42 anni e 10 mesi se maschi, 41 anni e 10 mesi se femmine. E sono stati in grado di farlo in numero crescente e largamente superiore dei trattamenti di vecchiaia – in ragione della loro storia lavorativa iniziata presto, contraddistinta da stabilità e continuità – all’età effettiva, alla decorrenza. Se “quota 100” sarà, come ovvio, un’opzione aggiuntiva (con sommatoria degli esiti rispettivi) ai pensionamenti di anzianità “ancien régime” (con storie contributive molto lunghe a prescindere dall’età anagrafica) si aggiungerebbero altri pensionati che compenserebbero, con il requisito di 62 anni di età, un percorso contributivo inferiore di almeno 5 anni nel 2019.

  

Per riassumere e concludere: il decreto aggiungerà un regime derogatorio per un triennio, che agirà “sotto la protezione” della riforma Fornero. Nel 2022, se non entrerà in vigore (cosa assai improbabile per gli oneri che sarebbero necessari) quota 41 (altra promessa demagogica), i pensionandi dovranno fare i conti soltanto con le regole introdotte dall’ex ministro nel 2011. Pertanto, i lavoratori che allora avranno maturato 38 o più anni di contributi dovranno raggiungere – alla faccia dell’equità – i 43 anni e 8 mesi di versamenti ovvero i 67 anni e 5 mesi per la pensione di vecchiaia, perché nel frattempo sarà scattato un nuovo adeguamento automatico dell’età pensionabile: una regola che i “nostri” lasceranno in vigore, a scapito delle pensioni di vecchiaia e quindi soprattutto a carico delle lavoratrici.

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