Il laboratorio delle fusioni e la concorrenza tradita in Europa
Le grandi concentrazioni di mercato vengono passate al setaccio della politica (Fincantieri-Stx) mentre si ambisce a costruire dei “campioni continentali” in provetta. La schizofrenia della Commissione è diventata patologica?
Dove finisce il metodo, dove inizia la follia? Ieri la Commissione europea ha aperto un’indagine sui potenziali effetti anti concorrenziali dell’acquisizione di Chantiers de l’Atlantique (il nuovo nome di Stx) da parte di Fincantieri, su richiesta di Francia e Germania. I due paesi, che qui tifano per Bruxelles e contro il merger, nella partita parallela per il matrimonio tra la francese Alstom e la tedesca Siemens Mobility giocano invece contro la Commissaria per la concorrenza, Margrethe Vestager. Il responso, inizialmente atteso per il 28 gennaio, dovrebbe arrivare il 18 febbraio. Per capire le ragioni di posizioni opposte su temi analoghi, bisogna rinunciare alla logica della concorrenza e cercare una risposta negli umori della politica.
Il matrimoni tra Alstom e Siemens darebbe vita a un colosso da 15 miliardi di fatturato, leader in Europa nei sistemi ferroviari. Secondo i promotori, l’integrazione è indispensabile per combattere ad armi pari con la società cinese di Stato, Crrc. Vestager sembra invece condividere le preoccupazioni delle autorità antitrust inglese, spagnola, olandese e belga, in merito al rischio di una posizione di assoluta dominanza, nei mercati per il materiale rotabile per l’alta velocità e i sistemi di segnalazione e controllo. Fincantieri dovrà sciogliere dubbi analoghi, solo che le parti saranno invertite. Parigi e Berlino, infatti, anziché accusare la Commissione di ingerenza politica e ignoranza economica, soffiano sul fuoco, alimentando i timori per il mercato della costruzione delle navi da crociera. E’ possibile che, in entrambi i casi, Vestager conceda il via libera solo al prezzo di dismissioni sufficienti da mantenere equilibrata la competizione nei rispettivi mercati.
La diversità di vedute e l’apparente schizofrenia riflettono non solo una differente lettura dello scenario di mercato e una considerevole dose di opportunismo, ma anche un approccio opposto al futuro dell’Europa. Da un lato, i fautori dei merger argomentano che l’agone competitivo ha estensione globale, e dunque concentrarsi su una parte di esso sarebbe limitante. Dall’altro, i guardiani della concorrenza hanno buon gioco nel sottolineare che la crescita esterna non può andare a scapito dei consumatori europei. Ci sono numerosi precedenti in cui la Commissione si è messa di traverso a operazioni di concentrazione, subordinandone l’autorizzazione a sostanziali misure compensative: tra gli altri, l’acquisizione di AirBerlin da parte di Lufthansa a patto di liberare slot a Duesseldorf e di rinunciare alla controllata Niki, oppure la fusione Wind-H3g in Italia, che ha aperto a Iliad le porte del nostro paese attraverso l’obbligo di dismettere asset.
La condotta di Vestager si espone facilmente all’accusa di essere pregiudizialmente contraria ai campioni europei. In principio, la garante della Concorrenza deve bilanciare con attenzione il rischio di monopolio coi benefici che potrebbero derivare dalle economie di scala e di scopo. Se queste superano quello, una riduzione della concorrenza è accettabile. In pratica, però, l’esecutivo europeo segue una linea di estrema cautela, optando, nel dubbio, per la tutela del panorama competitivo. “I campioni di cui l’Europa ha bisogno – ha scandito Vestager – non possono crescere nella bambagia, al riparo dalla competizione interna al mercato europeo. Devono farsi strada in un mercato interno competitivo, e continuare a farlo in giro per il mondo”. Questa strategia fa da contraltare all’altro – e più discutibile – orientamento europeo, di utilizzare la disciplina Antitrust come strumento di pressione geopolitica. Una prassi, questa, che si ripropone da almeno vent’anni, come si può vedere in casi quali Microsoft, GE-Honeywell, Intel e Google/Android. In un certo senso, la difesa del consumatore europeo dai potenziali abusi dei colossi domestici è l’altra e necessaria faccia della difesa degli operatori europei dai competitor stranieri, specialmente americani. Il problema è che, nel tentativo di ponderare gli effetti di due approcci uguali e opposti, si rischia di ferire l’innovazione e la capacità di investimento.
D’altronde, la contraddizione della politica europea della concorrenza va compresa – se non giustificata – alla luce dell’approccio ancor più incoerente degli stati membri. Troppo spesso, infatti, questi hanno pretestuosamente invocato la concorrenza con l’obiettivo di impedire l’ingresso delle imprese straniere. Quando i governi accusano la Commissione Ue di eccesso di zelo possono avere delle ragioni. Ma non di rado hanno l’aspetto del proverbiale corvo che dice al merlo “quanto sei nero!”. La questione emerge in tutta la sua brutalità in una lettera con cui diciannove Stati membri – tra cui Francia, Germania e Italia – chiedono di rivedere i principi della competition policy. L’attacco a Vestager non deriva da una visione “all’americana” dell’Antitrust, che accetta l’intervento pubblico solo quando sia dimostrabile un danno ai consumatori (mentre gli europei tendono a privilegiare la tutela dei concorrenti). La richiesta, semmai, è di accantonare la concorrenza tout court per tornare a una strategia industriale “organica” e “assertiva”. La Commissione, secondo gli estensori, dovrebbe sbrigarsi a identificare delle “filiere strategiche” e “dare la precedenza a quelle più direttamente collegate al miglioramento della produttività globale, la lotta al cambio climatico e il sostegno allo sviluppo tecnologico”, con tanto di piani d’azione e sussidi a gogo. Parole altisonanti sotto le quali si nasconde nulla da diverso da quella che Franco Debenedetti ha chiamato “insana idea” della politica industriale: scegliere (o addirittura costruire in vitro) i vincitori (europei) e salvare i perdenti della competizione (globale). Ora, di fronte a questa spinta, i peccati di Vestager appaiono veniali: le proteste degli stati non prendono a bersaglio l’eccessivo interventismo di Bruxelles, ma il fatto che esso viene vissuto come un vincolo all’autoreferenzialità dei governi. Infatti, sebbene le critiche siano mosse contro la competition policy in generale, la parte verso cui i politici nazionali sono più insofferenti è la disciplina degli aiuti di Stato. Lo ha colto perfettamente la stessa Vestager: “Non sono soltanto le azioni delle imprese a nuocere alla concorrenza. Anche gli stati lo fanno, quando usano il denaro pubblico a favore di alcune imprese e non di altre”. Invece, i diciannove firmatari chiedono esplicitamente di “rivedere la disciplina degli aiuti di stato” e ripensare le modalità attraverso cui la Commissione svolge l’analisi dei merger con l’obiettivo di “creare grandi player capaci di affrontare la competizione globale”. La scelta delle parole è meticolosa e rivelatrice: non si parla di lasciare crescere le imprese europee, ma di creare nuovi soggetti di grandi dimensioni. Incidentalmente, è curioso che il nostro paese, mentre varava una legge di bilancio ostile alla crescita dimensionale delle imprese, si schieri a favore del gigantismo a livello europeo. Viene il sospetto che, accanto al Signor Luigi, ci sia il Dottor Di Maio: l’uno impegnato a Roma a frenare le imprese di successo, l’altro desideroso a Bruxelles di progettare a tavolino i campioni europei. Non Darwin, ma Frankenstein.
Il paradosso europeo, allora, è che la regolazione del mercato sembra oscillare tra due estremi, ciascuno dei quali comporta un rallentamento e un ostacolo sistematico – anche se di natura opposta – alla concorrenza. Per un verso, la Commissione troppo spesso prende decisioni sulla base di una visione statica: preoccupandosi più degli equilibri alchemici tra le quote di mercato che delle conseguenze dinamiche dei suoi stessi interventi. Per l’altro, gli stati membri non hanno ancora accettato che, per costruire un’Europa più prospera, bisogna allargare gli spazi di mercato e rinunciare alla distribuzione discrezionale di favori politici.