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Perché sulle farmacie si va verso la retromarcia corporativa

Carlo Stagnaro

Il governo smantella la liberalizzazione della proprietà delle farmacie. Ma il protezionismo è solo l’altra faccia della rendita

Roma. Se il governo gialloverde può fare qualcosa contro la produttività, lo farà. L’esecutivo sembra pronto ad accogliere, nel decreto semplificazioni, alcuni emendamenti che limitano la libertà d’impresa nel settore farmaceutico, impedendone la modernizzazione. Se approvati, imporrebbero lo scioglimento delle società che gestiscono farmacie, a meno che il capitale non sia in mano a farmacisti iscritti all’Albo per almeno il 51 per cento. Il ministro della Salute, Giulia Grillo, ha dato il suo placet a questa misura anti concorrenziale e corporativa, facendo proprie le richieste di Federfarma e ignorando gli interessi dei consumatori-pazienti. Fino a due anni fa, solo i farmacisti potevano essere titolari di licenze, e nessuno poteva averne più di quattro.

 

Questi vincoli poggiavano sul pregiudizio che la tutela del consumatore fosse garantita dalla proprietà dell’esercizio commerciale, e non la qualificazione professionale degli addetti. Invece, l’effetto è stato solo quello di impedire l’evoluzione del settore. Le cose sono cambiate nel 2017 con l’approvazione della legge per la concorrenza (a cui abbiamo lavorato assieme ai colleghi della segreteria tecnica del ministro Federica Guidi). Il provvedimento ha fatto tre innovazioni: ha consentito alle società di capitali di gestire le farmacie (ferma restando la presenza di farmacisti al banco); ha sostituito l’anacronistico tetto di quattro licenze con un limite del 20 per cento su base regionale; e ha liberalizzato gli orari e i turni di apertura.

 

In tal modo si sono moltiplicate le leve concorrenziali: prima tutte le farmacie avevano – ex lege – lo stesso modello di business e la stessa struttura dei costi. Anche per questo erano in grado di mantenere i prezzi al di sopra dei livelli di mercato (come è diventato evidente, per i farmaci da banco, nel confronto con le parafarmacie e i corner nei supermercati). Adesso, c’è spazio per una pluralità di attori: dall’esercizio indipendente alla grande catena.

 

La liberalizzazione della proprietà fa inoltre cadere due tabù: la crescita dimensionale e l’integrazione verticale. In questo come in altri settori, la dimensione ottima delle imprese e la scelta se cercare sinergie a monte (coi grossisti) non è più legata a un’astratta imposizione legislativa, ma dipende da concrete scelte imprenditoriali che, a loro volta, riflettono le specifiche condizioni di luogo, tempo e tecnologia. Le conseguenti opportunità di risparmio ed efficienza economica rappresentano la condizione necessaria per migliorare il benessere dei consumatori. L’esperienza internazionale è coerente con le aspettative: uno studio condotto dalla società Ecorys per conto della Commissione europea, per esempio, ha trovato che l’esistenza di restrizioni alla proprietà delle farmacie ne danneggia la produttività, l’efficienza allocativa e la qualità del servizio. Gli autori dell’indagine hanno tra l’altro trovato che – nei contesti maggiormente concorrenziali – i margini delle farmacie tendono a ridursi. Come in altri casi, dunque, la protezione normativa è l’altra faccia della rendita.

 

Reintrodurre i vincoli eliminati è persino peggio che mantenere quelli esistenti: il mercato si è ormai messo in moto, sono entrate nuove società italiane ed estere. Soffocare la riforma attraverso il requisito della maggioranza per i soci farmacisti non danneggerebbe soltanto i consumatori (e in particolare quelli più deboli), ma anche i titolari di farmacie indipendenti, che non di rado hanno trovato ossigeno proprio grazie ai possibili acquirenti della loro licenza. Il ritorno al farmacista titolare come unico modello di business ammesso dalla legge forse evoca l’immagine dell’antico speziale curvo sulle preparazioni galeniche, ma molto più concretamente puntella gli interessi dei pochi a spese dei molti. Il boom economico evocato Ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, dovrebbe correre sulle autostrade digitali: non si capisce perché le farmacie debbano essere costrette a tornare sulla vecchia mulattiera corporativa.

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