Il mistero delle riforme mancanti (e della crescita stagnante)
I due delitti commessi ai danni del nostro paese: il futuro rubato ai giovani e le riforme mai fatte
Nel racconto “Silver Blaze”, Sherlock Holmes è alle prese con il caso del duplice delitto del furto dell’omonimo cavallo da corsa e dell’assassinio del suo allenatore. Sherlock risolve brillantemente il caso con questa intelligente osservazione. Parlando con l’ispettore Gregory di Scotland Yard, che proprio non sembra capire, dice:
Gregory: “C’è qualche altro punto su cui vorrebbe attirare la mia attenzione?”
Holmes: “Sul curioso avvenimento del cane durante la notte.”
Gregory: “Il cane non ha fatto nulla durante la notte.”
Holmes: “E’ stata propria quella la cosa curiosa.”
Nella notte in cui è avvenuto il delitto, il mastino di guardia alla stalla non ha abbaiato. Quindi doveva conoscere l’assassino. Sherlock scopre così che l’assassino è il padrone del cane, l’ex allenatore del cavallo da corsa. Pertanto qualcosa che non è accaduto spiega un evento.
Per il nostro paese, e soprattutto per i nostri giovani, il delitto si chiama mancanza di futuro: è il portato di una crescita (quasi) zero che incatena la nostra economia da circa un quarto di secolo e spinge i giovani, a centinaia di migliaia, ad abbandonare definitivamente il paese. Tra 1998 ed il 2017 in Italia si è registrata la più bassa crescita del reddito per lavoratore attivo (in giallo nella figura 1), e del pil (puntino rosso nella figura 1), rispetto a tutti gli altri paesi della zona euro, compresi Grecia, Portogallo, Spagna e Cipro, dove la crisi del debito ha avuto conseguenze ben più gravi che da noi.
(Figura 1) Pil per popolazione in età lavorativa, fonte: Bce su dati Eurostat
Facile comprendere la fuga dei giovani. La Intergenerational Foundation di Londra ha elaborato un indice che considera quanto ciascun paese penalizza le nuove generazioni rispetto agli anziani. L’indice tiene conto di indicatori quali il costo delle abitazioni, il rapporto debito/pil, il rapporto tra spese per istruzione rispetto a quelle per la sanità, il tasso di disoccupazione giovanile, la qualità dell’ambiente, il rapporto pensionati/lavoratori attivi, la spesa per ricerca e sviluppo, vari indicatori di reddito e di povertà. Nel 2014 l’Italia era al penultimo ultimo posto, prima della Grecia; in caduta rispetto al 2005 dove, almeno, facevamo meglio anche di Romania e Bulgaria.
(Figura 2) Persistenza professionale tra le professioni, fonte: Mocetti, Roma, Rubolino (Banca d’Italia)
Cosa spiega la stagnazione italiana? L’“austerità” non centra, perché il l’arresto della crescita è molto anteriore alla recente crisi europea, e comunque andiamo molto peggio sia di paesi che hanno mantenuto i conti in ordine, sia di quelli che li hanno messi in ordine in modo molto più severo di noi; e neppure c’entrano l’euro o il “neoliberismo”, sia perché ci stiamo confrontando con altri paesi della zona Euro, sia perché la maggior parte di questi sono parecchio più “liberisti” di noi. Come nel racconto di Conan Doyle, la chiave del delitto sta in qualcosa che non è accaduto: le riforme.
Le mancate riforme sono evidenziate dagli indici che misurano la concorrenza dei mercati dei beni, del credito, dei servizi e delle professioni, da quelli che misurano la centralizzazione della contrattazione salariale, i divari di produttività tra le imprese che indicano una cattiva allocazione di lavoro e capitale, dalle misure dell’efficienza di giustizia, della pubblica amministrazione, della riscossione delle imposte, dagli indici di corruzione e burocrazia, dai test sull’efficacia del sistema educativo. Una conseguenza spesso poco apprezzata di questo quadro desolante è la scarsissima mobilità sociale del paese. Quanto è difficile per un giovane di migliorare la propria situazione economica rispetto a quella della sua famiglia d’origine? Un recente studio della Banca d’Italia mostra (figura 2) che, per chi ha un genitore che esercita una particolare professione, la probabilità di accedere a quella professione (sulle ordinate nel grafico) è tanto più alta, rispetto alla popolazione, quanto maggiore è il grado di regolamentazione del settore (sull’asse delle ascisse). La “persistenza generazionale” appare straordinariamente alta per farmacisti e notai, due professioni protette da elevatissime barriere all’entrata. Dunque, non stupisce che la Banca centrale europea stimi che sia proprio il nostro paese, tra tutti quelli dell’Eurozona, quello più penalizzato dal cattivo funzionamento dei mercati. Riforme che portassero il nostro indice di competitività a eguagliare quello dei primi tre paesi in Europa ci permetterebbero di accrescere la nostra crescita potenziale di circa 1,5 punti percentuali all’anno.
Ma allora perché le riforme sono sparite completamente dal dibattito pubblico di questo paese, che sembra non riuscire a liberarsi dalla tentazione di continuare a penalizzare i propri giovani, sia con pensioni più generose che saranno loro a pagare, sia con maggiore debito per redistribuire oggi un reddito che essi dovranno produrre domani? Ci sono due teorie. La prima, è nota come la “dottrina Juncker”, il presidente della Commissione europea, a cui viene attribuita la seguente affermazione: “(Noi politici) sappiamo bene le cose da fare (per far crescere l’economia); il punto è che non sappiamo come farci rieleggere dopo averle fatte”. Dunque, la tesi è che le riforme producono benefici di lungo periodo, per giovani e per le generazioni future, che ancora non votano, ma implicano costi di breve periodo, andando a incidere sui privilegi di categorie protette, che invece votano. Nessun politico aspira a venire additato come nemico del popolo, come recentemente accaduto ai professori Fornero e Monti. La seconda teoria, che chiameremo, “dottrina Gregory” (l’ispettore di Scotland Yard), è questa: i nostri governanti non capiscono come “qualcosa che non è avvenuto” possa essere la causa dei nostri mali. Proprio non ci arrivano. Probabilmente la verità sta nel mezzo.
Paolo Manasse è economista, Università di Bologna