Non sarà la retorica a difendere l'Italia dal tracollo previsto da Fmi e altri
La domanda interna crolla, lo spread sale e la caduta dell'industria tedesca frena le nostre esportazioni. Ma il governo continua a ignorare gli allarmi
Roma. E’ una reazione comune della politica quella di dare la colpa alle autorità indipendenti quando fanno notare, con dati economici alla mano, gli insuccessi della classe dirigente. Tuttavia è diventato un riflesso pavloviano del governo gialloverde quello di dare del brigante alle istituzioni che prevedono o che certificano un rallentamento dell’economia italiana. E così per Matteo Salvini la minaccia per l’economia mondiale non è rappresentata da un’Italia che non cresce, o meglio arretra, ma è il Fondo monetario internazionale, che avanza quella prospettiva, a rappresentare la “minaccia”. Oppure la Banca d’Italia che diventa per l’altro vicepremier Luigi Di Maio una istituzione che “da anni non ci prende” quando prevede recessione. Gettare discredito è insomma una tattica del governo Lega-M5s che soltanto i media acritici o filogovernativi possono riuscire a sostenere.
Al fondo della questione, però, in questo modo, il governo non tiene conto di copiosi dati previsionali che prevedono un marcato rallentamento dell’economia italiana, nel contesto di una frenata mondiale e soprattutto europea, e così evita di prendere eventualmente le opportune contromisure. Gli ultimi dati sono i seguenti. Come la Banca d’Italia anche il Fmi ha tagliato le stime sulla crescita dell’Italia pubblicate lunedì con il suo World economic outlook. Nel 2019, secondo il Fmi, il pil italiano crescerà a un tasso dello 0,6 per cento invece che dell’1 per cento come stimato solo a ottobre. La crescita italiana è insomma dimezzata.
A giustificare la revisione, secondo l’istituto con sede a Washington, sono “la debole domanda domestica e i maggiori costi di finanziamento dovuti ai rendimenti elevati sui titoli di stato”, ovvero l’aumento stabile dello spread tra Btp e Bund determinato dall’aumento del rischio politico in forza delle decisioni del governo in carica da giugno. Il dato è perfettamente in linea con quello pubblicato venerdì scorso nel Bollettino economico della Banca d’Italia. In generale Banca d’Italia e Fmi sono anche più ottimisti di organizzazioni private e indipendenti come le banche d’affari o i centri studi che prevedono una crescita inferiore. Si va da Oxford Economics (0,3 per cento) e Prometeia (0,5 per cento) passando per BofA Merrill Lynch (0,2 per cento) e Goldman Sachs (0,4 per cento).
Nel complesso, l’Eurozona subisce una sforbiciata dello 0,3 per cento, per un pil 2019 previsto in aumento dell’1,6 per cento. Questo riflette, dice il Fmi, “in parte l'indebolimento del ritmo di crescita registrato nella seconda metà del 2018 – come in Germania dopo l’introduzione dei nuovi standard di emissione per le automobili”. La debolezza dell’industria tedesca dovrebbe essere motivo di preoccupazione in Italia. Se infatti il rallentamento italiano è conclamato – Banca d’Italia infatti ha previsto la recessione alla fine dell’anno scorso con due trimestri di crescita negativa – potrebbe aggravarsi in futuro proprio per le doglie dell’industria in Germania.
Come si nota dalle infografiche in basso elaborate per il Foglio dal Centro studi di Confindustria, la Germania è il primo partner commerciale per l’Italia con una quota di esportazioni pari al 12,5 per cento sul totale mondiale.
I sistemi di produzione italiano e tedesco sono integrati nelle catene del valore perché le imprese italiane forniscono a quelle tedesche prodotti semilavorati. Va da sé che la caduta della produzione manifatturiera tedesca frena quindi le esportazioni italiane. Il rallentamento delle esportazioni, che nel 2017 hanno rappresentato il 26 per cento del pil, incide quindi sulla crescita dell’anno in corso e colpisce soprattutto i distretti manifattuerieri del nord, in particolare meccanici, che per ragioni storiche sono legati alle imprese tedesche. E’ insomma una situazione delicata e negativa. La risposta del governo gialloverde è quella di proporre un reddito di cittadinanza vago nelle sue articolazioni pratiche, i cui effetti eventuali sono però prevedibili. L’economista Mario Deaglio, presentando a Milano il 23esimo Rapporto sull’economia globale e l’Italia, promosso dal Centro Einaudi e da Ubi Banca, è stato chiaro: “Su 100 euro di reddito di cittadinanza 35-40 andranno all’estero (cioè per comprare beni importati, ndr). Rimarranno 60-65 euro che vanno a stimolare i consumi, ma è una cifra che sul totale dell’Italia sposta un secondo decimale; si tratta di poca roba e comunque se ne parlerà nella seconda metà dell’anno”. Al di là della vis polemica il governo gialloverde non ha niente all’orizzonte per difendere l’Italia da una frenata dell’economia di proporzioni mondiali.