“Si è fermata la globalizzazione, e non è una buona notizia”. L'analisi dell'Economist
Tornano i dazi e le guerre commerciali. Per il settimanale britannico siamo nell'èra della “slowbalisation”: la globalizzazione a rilento che non ci salverà
“Le guerre commerciali, il rallentamento della Cina, gli investimenti esteri in calo”. L'Economist mette insieme questi fenomeni globali e gli dà un nome: “slowbalisation”, che è una crasi tra globalizzazione (“globalisation”) e rallentamento (“sluggishness”). La copertina di questa settimana mostra una lumaca che regge il mondo sulle spalle (“sluggish” deriva da “slug”, che in inglese significa lumaca) come metafora del rallentamento globale.
Secondo il settimanale britannico, l'epoca d'oro della globalizzazione è iniziata nel 1990 ed è terminata nel 2010. Questo ha cambiato profondamente il mondo in cui viviamo: l'immigrazione è aumentata dal 2,9 al 3,3 per cento della popolazione mondiale, il commercio globale è cresciuto dal 39 per cento del pil nel 1990 al 58 per cento dell'anno scorso.
La globalizzazione è entrata in crisi nel 2008: quasi tutti gli indicatori sul commercio globale e sull'integrazione tra i mercati sono calati negli ultimi dieci anni. Questo è accaduto per varie ragioni. “Il costo di trasferire beni da un paese all'altro ha smesso di diminuire in parte a causa dei dazi – scrive l'Economist – Le multinazionali hanno capito che la stagnazione globale brucia molti soldi e i rivali locali spesso sono più capaci del previsto. L'attività economica si sta spostando verso i servizi, che sono più difficili da vendere all'estero. Ad esempio, un avvocato cinese non può svolgere la sua professione a Berlino”.
"Slowbalisation": la copertina dell'ultima edizione dell'Economist sul rallentamento del commercio globale
Questi fattori hanno creato il clima per la guerra commerciale di Trump; i dazi americani sui prodotti cinesi hanno raggiunto il loro livello massimo negli ultimi 40 anni, e i costi aggiuntivi sono ricaduti sui consumatori. I numeri confermano questa tendenza: “Gli investimenti cinesi in Europa e in America sono calati del 73 per cento nel 2018. Il valore globale degli investimenti esteri delle multinazionali è diminuito del 20 per cento nello stesso anno”.
Le politiche ostili dell'amministrazione Trump contro le aziende tech cinesi Ztl e Hauwei hanno frenato il commercio globale. Tuttavia, i dazi del presidente americano hanno deteriorato una siutazione di per sé molto difficile. “Se non ci fosse stata la guerra commerciale, la globalizzazione avrebbe raggiunto una fase di saturazione. Tuttavia, forse, i flussi finanziari come i prestiti bancari si sarebbero potuti risollevare dopo la crisi globale”. L'Economist mostra che circa 80 tra le aziende statunitensi più grandi hanno perso circa 6 miliardi di profitti (il 3 per cento) nella seconda metà del 2018 a causa dei dazi.
L'America ha già conosciuto il protezionismo in passato, e poi è tornata a essere un'economia aperta al resto del mondo. Tuttavia, stavolta potrebbe essere diverso: “Il timore degli americani verso la Cina è bipartisan, e continuerà anche dopo Trump. Le aziende temono che la globalizzazione ad alta velocità che c'è stata tra il 1990 e il 2010 non sia più la norma”. L'Economist prevede un calo delle esportazioni dal 28 per cento al 23 per cento del Pil nei prossimi dieci anni sulla base delle tendenze dell'ultimo decennio. “Questo sarebbe equivalente a un terzo della contrazione che abbiamo visto dal 1929 al 1946, la precedente crisi della globalizzazione.
Alcuni economisti sostengono che l'aumento dell'e-commerce possa invertire la rotta, ma l'Economist non è d'accordo. “Questo fattore è molto sovrastimato. Le vendite all'estero delle mille aziende di e-commerce più grandi in America, equivalgono solo all'1 per cento delle esportazioni globali nel 2017.”
La “slowbalisation” rafforzerà i legami commerciali tra i blocchi regionali sia in Europa che in Asia, e questo non sarà necessariamente un fenomeno negativo. “I mercati continentali sono abbastanza grandi per prosperare. Circa 1.2 miliardi di persone sono uscite dalla povertà dal 1990, e non c'è ragione per credere che la percentuale di poveri possa crescere di nuovo. In alcuni casi, l'integrazione a livello regionale sarà più profonda di quella che ci sarebbe stata a livello mondiale”. Infatti dieci anni fa un terzo degli investimenti esteri nei paesi asiatici proveniva dal continente asiatico; oggi la stessa cifra è metà del totale. La stessa tendenza si verifica in Europa, e in entrambe le regioni l'integrazione può fare sorgere dei problemi politici. “L'Unione europea è impopolare tra molti europei. La Cina è messa peggio; pochi paesi asiatici si fidano completamente di Pechino”.
Tuttavia, il rallentamento globale porta con sé due grossi svantaggi. “Innanzitutto, crea delle nuove difficoltà. Dal 1990 al 2010 la maggior parte dei paesi emergenti hanno diminuito il loro divario con i paesi sviluppati. Oggi questo sarà più difficile. Poi, i tassi di interesse nella maggior parte dei paesi continueranno a essere influenzati dall'America anche se il loro rapporto commerciale con Washington sarà più debole. Questo creerà delle turbolenze finanziarie”. In secondo luogo, la “slowbalisation” non risolverà i problemi della globalizzazione ma potrebbe anzi aggravarli. “L'automatizzazione significa che non verranno creati nuovi posti di lavoro non qualificati. Le aziende assumeranno gli operai nei luoghi dove il costo è più basso all'interno di ogni regione”.
Inoltre, sarà più difficile risolvere le grandi sfide globali – come il cambiamento climatico, l'immigrazione, l'evasione fiscale – con l'assenza di una cooperazione globale. La conclusione dell'Economist è che “nel lungo termine, nei prossimi secoli, la globalizzazione è un processo irreversibile. Finora è stato fatto troppo poco per mitigarne i costi. Tuttavia, la soluzione offerta – la “slowbalisation” – sarà meno stabile e più difficile del problema originale e alla fine potrebbe solo alimentare il malcontento”.