Le porte dell'Africa
Per secoli il suo destino s’è giocato in Europa, ora sarà lei a determinare il futuro del Vecchio continente. Dagli aiuti agli investimenti. Il salto tecnologico, le potenze straniere. Gli abbagli sul franco parallelo
L’Africa, ma quale Africa? Dopo tutto il gran parlare di questi giorni, si stenta ancora a capirlo. Chiudiamo pure i porti, spranghiamo anche le porte, ma non dimentichiamo il monito di Plinio il Vecchio: “Dall’Africa viene sempre qualcosa di nuovo”. Lo scrittore e naturalista romano aveva negli occhi il nord del continente, la terra più ricca dell’impero, pianure ubertose che producevano grano, colline ricoperte di ulivi e di viti che sfamavano e dissetavano l’Urbe. A noi oggi arriva soltanto un’immagine sghemba, deformata dalla “marea umana” che percorre senza soste il Mediterraneo. Eppure, l’Africa è diventata una scacchiera determinante nella ridefinizione dei nuovi equilibri economici, politici, strategico-militari. Per secoli il suo destino s’è giocato in Europa, adesso è vero esattamente il contrario: sarà lei a determinare il futuro del Vecchio continente. “Sono lontani i giorni in cui il ruolo giocato dagli attori africani era ininfluente”, spiega Paolo Magri, direttore dell’Ispi, l’Istituto di studi sulla politica internazionale. “Nel contesto globale in cui l’egemonia delle vecchie potenze è sfidata dalle nuove, la partecipazione dell’Africa agli affari internazionali trova nuovo spazio e rafforza il suo potere contrattuale”, giocando su tutti i tavoli. I paesi europei, incapaci di stabilire una strategia comune di lungo periodo, oscillano tra il monito etico di Tony Blair per il quale “l’Africa è una ferita nella coscienza del mondo” e il benign neglect di Barack Obama primo presidente afroamericano per il quale “il futuro del continente è in mano agli africani”. Fino alla minaccia protezionista di Donald Trump che suona come una sentenza di morte. Gli occidentali si dilaniano tra le colpe del passato e le furbizie del presente, mentre la Cina svolge già un ruolo chiave che molti definiscono neo-imperiale e la Russia ricostruisce la sua Africa sulle orme dell’Unione sovietica: dall’Algeria all’Egitto, dall’Uganda allo Zimbabwe, Vladimir Putin vuole essere il perno attorno al quale tutto gira.
Dall’Algeria all’Egitto, dall’Uganda allo Zimbabwe, Vladimir Putin vuole essere il perno attorno al quale tutto gira
Il franco Cfa è agganciato all’euro e ha favorito la stabilità finanziaria: il tasso d’inflazione è sul 2 per cento l’anno
L’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale, appena pubblicato, sostiene che l’Africa del nord crescerà attorno al 2 per cento, quella sub-sahariana del 3,5, sei decimali di punto in più rispetto al 2018. Se non ci fosse stata la discesa dei prezzi petroliferi che ha colpito soprattutto due grandi esportatori come Nigeria e Angola, la media sarebbe stata più alta. Del resto circa un terzo della regione può vantare un tasso di sviluppo superiore al 5 per cento come nel decennio che ha preceduto la grande crisi del 2008. Tra i paesi che corrono ci sono la Costa d’Avorio, il Senegal, il Ruanda, la Tanzania e il Mali. E c’è l’Etiopia, il cui primo ministro Abi Ahmed Ali, l’uomo della svolta e della pace con l’Eritrea, è venuto a Roma per cercare non aiuti, ma sviluppo. Questa crescita a macchia di leopardo resta influenzata dalle materie prime, ma sempre di più è trascinata da consistenti risorse che arrivano dalla perfida finanza globalista guidata da Goldman Sachs, dalle nuove potenze che hanno scommesso forte sull’Africa (la Cina ha staccato assegni per 143 miliardi di dollari) e dalle rimesse degli emigrati, esattamente come è già avvenuto in Cina negli anni Ottanta o ancor prima in Italia. “Aiutiamoli a casa loro”, dunque, è uno slogan che i tempi nuovi hanno svuotato di senso. La novità degli ultimi anni, infatti, è proprio il passaggio dagli aiuti agli investimenti e l’utilizzo esteso delle nuove tecnologie. In qualche modo è la riprova del famoso detto di Confucio: a chi ha fame non dare riso, ma insegnagli a coltivarlo.
Un potenziale notevole s’annida sotto le sabbie dei deserti, nelle giungle, ma ancor più nelle nuove megalopoli dove convivono miseria e nobiltà, le bidonville e i grattacieli in vetro e cemento: Cairo, Lagos, Kinshasa, Johannesburg, Luanda, Dar es Salaam hanno ciascuna dieci milioni e passa di abitanti. Ci sono stati altri momenti in cui l’Africa, pur tra le sue enormi differenze, sembrava protagonista di un miracolo economico. Poi, vuoi per la crisi internazionale vuoi per il succedersi di occasioni mancate, sono tornati a prevalere gli antichi malanni. Si pensi a quel che sta accadendo nello Zimbabwe: uscito di scena Robert Mugabe, è arrivato il suo seguace Emmerson Mnangagwa che vola da Putin per stringere un accordo sulle miniere di diamanti, mentre i suoi sgherri reprimono le proteste contro il carovita. E che dire del grande sogno sudafricano? Il dopo Mandela s’è rivelato un gran pasticcio.
Sembra difficile, dunque, ritrovare un filo comune tra 54 stati divisi tra loro e lacerati all’interno da conflitti politici, etnici, religiosi. E tuttavia, dieci delle prime venti economie mondiali con il più alto tasso di sviluppo sono nell’Africa sub-sahariana. Non solo: elezioni multipartito più o meno regolari sono ormai la norma. Anche se non bastano per parlare di espansione della democrazia: va ricordato che negli anni Ottanta ci sono stati 17 colpi di stato e la metà dei governi sono stati rovesciati manu militari. Il decennio successivo ha visto guerre civili spaventose come quelle nella regione dei Grandi Laghi e il collasso del Corno d’Africa a cominciare dalla Somalia. Oggi la violenza politica viene soprattutto dal terrorismo, in particolare quello di matrice islamica (da Boko Haram in Nigeria ad al Shabaab in Somalia, passando per i gruppi jihadisti nel Sahel a cominciare da Aqim). Così come accade in economia, anche in materia di guerra, pace e sicurezza gli stati africani cominciano a prendere in mano il proprio destino e formano coalizioni un tempo impensabili (per esempio in Sahel e sul lago Ciad). Sono primi passi: al di là degli interessi specifici e spesso divergenti, gli africani cominciano ad acquisire una visione comune. Il 21 marzo 2018, a Kigali (capitale del Ruanda), 44 stati membri dell’Unione africana (Ua) hanno firmato l’accordo che istituisce l’area di libero scambio continentale africana (Afcta nell’acronimo inglese), la più grande al mondo. Una pietra miliare, nonché il progetto più importante nell’ambito dell’Agenda 2063 che stabilisce le aree prioritarie per lo sviluppo del continente nei prossimi cinquant’anni.
L’Ispi ha dedicato numerosi studi alle trasformazioni africane che toccano tutti gli aspetti della società, dell’economia e della politica. L’ultimo volume curato da Giovanni Carbone, docente associato all’Università di Milano, è uscito lo scorso anno e raccoglie il contributo di alcuni dei principali analisti internazionali, sotto il titolo “Vision for Africa future”. Quel che colpisce sul piano economico è la rincorsa tecnologica. Pur restando indietro rispetto ai paesi più avanzati, sottolinea Carbone, stanno trovando la loro strada saltando le soluzioni più costose e meno efficienti. Molti compiono un salto, anziché percorrere le varie tappe della accumulazione, come ha fatto la Cina, cercano di acchiappare subito la fase più avanzata. Nel 2000 c’erano 1,7 telefonini ogni cento persone, oggi siamo vicini agli 80. In paesi immensi con scarse infrastrutture fisse, la connettività mobile ha spalancato orizzonti impensabili. Non solo. Le grandi reti elettriche mancano, allora si passa direttamente alle micro reti alimentate da energie alternative. Il Ruanda usa i droni per trasportare sangue e medicinali, la Costa d’Avorio per controllare le piantagioni. Gli esempi sono innumerevoli e tutti confermano che la “strategia della rana” sta diventando un vero modello di sviluppo per la nuova Africa. Uno sviluppo a balzelloni nella speranza di risparmiare almeno un decennio e svuotare quell’immenso serbatoio di giovani protagonisti della nuova Africa, quegli stessi che oggi guidano il grande flusso migratorio. Sì, perché le migrazioni odierne non sono solo frutto della povertà e della guerra, ma soprattutto dello sviluppo. “L’evidenza empirica dimostra che il più alto livello di migrazione extra-continentale (non solo di natura economica, ma anche politica) si trova nei paesi che hanno un pil pro capite più alto, un migliore accesso alle infrastrutture e ai servizi, un maggior livello di istruzione”, sottolinea Carbone. Non solo perché ci vogliono soldi per arrivare in Europa pagando i “mercanti di uomini”, ma perché è proprio un livello più avanzato di transizione demografica ed economico-sociale che cambia e aumenta le aspettative. E tuttavia il sogno europeo si trasforma in incubo.
C’è ancora bisogno di altri capitali, senza dubbio, soprattutto per finanziare strade, porti, ospedali, programmazione urbana, acqua, elettricità, internet (la Banca mondiale calcola da 120 a 174 miliardi di dollari l’anno per le infrastrutture). La povertà non è stata affatto debellata: ancora il 40 per cento della popolazione nei paesi sub-sahariani viene classificata povera in termini assoluti, ma le aspettative di vita sono passate da 50 a 60 anni e la mortalità infantile è scesa da 170 a 78 per mille, una quota sia chiaro ancora troppo alta. Non si tratta, dunque, di cantare le magnifiche sorti e progressive, ma di togliersi i paraocchi. La telefonia cellulare è stata preziosa, ha aperto al mondo anche i villaggi più sperduti e ha colmato in parte le carenze infrastrutturali, dai mezzi di trasporto alle banche. Ma ha offerto anche la via di fuga dalle megalopoli senza testa e senza cuore che hanno rimpiazzato l’economia del villaggio.
Eppure, l’Africa che viene rappresentata oggi, soprattutto ma non solo dai populisti, è ancora il continente perduto dei vecchi luoghi comuni. Le “invasioni” di diseredati diretti verso l’Europa sono in realtà gocce nella fiumana di donne e uomini che migrano soprattutto nei paesi vicini, o passano da un territorio a un altro là dove i veri confini sono quelli etnico-sociali e non geografici. Questo continente in movimento, e non sempre alla deriva, era stato contenuto in gran parte dalla fascia dei paesi settentrionali che avevano fatto da scudo. Il punto di svolta può essere collocato nel 2011, l’anno in cui l’Unione europea è stata scossa dalla crisi dei debiti sovrani, mentre sulla “sponda sud” scoppiano una dopo l’altra le cosiddette primavere che scuotono i paesi del nord, quell’Africa araba che nel corso di un secolo aveva chiuso come in un ampio coperchio il calderone ribollente dell’Africa nera. In quell’anno cadono i regimi nazionalisti, fondamentalmente laico-autoritari, sotto la spinta del fondamentalismo islamico e in particolare dei Fratelli musulmani: Ben Ali in Tunisia, Moubarak in Egitto e soprattutto Gheddafi. La Libia aveva fatto da tappo, ben sostenuto e ben pagato sia chiaro, ma la caduta del Colonnello lo ha fatto saltare, senza che ci fosse un contenitore per raccogliere le energie che si sono liberate. L’intervento franco-inglese in Libia è la rappresentazione corposa di una vera e propria impotenza pasticciona da parte dei paesi ex coloniali che pretendono ancora un droit de régard e del silenzio di una Unione europea disarmata e senza politica. Ma l’Africa del 2011 non era più in nessun modo un continente perduto, un cuore di tenebra. Al contrario. Dopo il ventennio delle tigri asiatiche, era cominciato il decennio dei leoni, alimentati anch’essi dall’innovazione tecnologica e dall’apertura dei commerci mondiali.
La novità degli ultimi anni è il passaggio dagli aiuti economici agli investimenti, e l’utilizzo esteso delle nuove tecnologie
Il punto di svolta è il 2011, l’anno in cui l’Ue è scossa dalla crisi dei debiti, e nel nord Africa si affacciano le primavere arabe
Le vecchie potenze, così si dice, hanno continuato a sfruttare i paesi africani per appropriarsi delle loro ricchezze naturali, dalle risorse minerarie all’agricoltura. E la Francia si è distinta in questo, basti pensare all’uranio del Niger, un paese militarizzato dalla Legione straniera, o al controllo dei trasporti e della logistica grazie anche a Vincent Bolloré. Lo strumento per perpetuare questa soggezione sarebbe rappresentato dal famigerato Cfa. Pochi ne conoscevano l’esistenza prima che un’abile operazione propagandistica attribuita da molti alla Casaleggio Associati, non mettesse la banconota in mano ad Alessandro Di Battista per mostrarla in televisione a uno sbalordito Fabio Fazio. L’economista Giuseppe Pennisi l’ha studiata da vicino, ne ha scritto in tempi non sospetti e ora ricostruisce in dettaglio il cammino di questa moneta parallela. “In primo luogo l’acronimo Cfa ha avuto negli anni vari significati. Quando venne creato nel 1945, voleva dire franco delle Colonies Françaises d’Afrique. Negli anni Cinquanta, Cfa stava per Communauté Franco-Africaine e si pensava a un’evoluzione analoga al Commonwealth britannico, divenne, poi, Communauté Financière Africaine, inizialmente unica per tutta la zona e successivamente divisasi in due aree, con due monete gemelle, Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa), con la Banca centrale a Dakar in Senegal, e una Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (Cemac) con la Banca centrale a Yaoundé nel Camerun. La ‘stanza di compensazione’ è presso il Tesoro francese. Ne fanno parte anche stati che provengono da esperienze coloniali spagnole e portoghesi come la Guinea Bissau e la Guinea Equatoriale. Ne sono usciti negli anni Settanta il Madagascar e la Mauritania ma hanno inteso mantenere un cambio fisso e c’è anche chi ci ha ripensato, come il Mali, uscito nel 1962 per rientrarvi nel 1968”.
Il franco Cfa è agganciato all’euro e ha favorito la stabilità finanziaria: il tasso d’inflazione è sul 2 per cento l’anno rispetto, ad esempio, al 17 per cento della Nigeria. Ha penalizzato l’export? E’ difficile dirlo, spiega Pennisi, dato che dal 1958 gli stati Cfa godono di un sistema di preferenze tariffarie nell’Unione europea e accesso privilegiato per le loro produzioni agricole. Tranne poche eccezioni, nonostante la loro povertà di ricchezze naturali, hanno da venticinque anni tassi di crescita pari al doppio (5 per cento l’anno) della media (2,5 per cento l’anno) dell’Africa a sud del Sahara nel suo complesso. Soprattutto non c’entra niente con le migrazioni: meno dell’8 per cento dei migranti alla volta dell’Europa proviene dall’area del franco. Dal 2000 al 2015, del resto, la quota di persone che lasciano l’Africa è rimasta stabile attorno al 2,6 per cento, inferiore a quella del recente passato (il 3,2 per cento nel decennio Novanta), anche se il numero è cresciuto da 21 a 32 milioni grazie all’aumento della popolazione. Dunque, di quale Africa stiamo parlando? Del “popolo di negri che ha inventato l’hully gully” come nella canzoncina di Edoardo Vianello che oggi, forse non a caso, sta avendo un improvviso revival?