Il deficit di comprensione della realtà
Perché lo spaesamento di Di Maio (preoccupato dagli esportatori) è un fattore di ulteriore angoscia per le imprese
Roma. Mentre l’Ufficio nazionale di statistica conferma che l’Italia è entrata in recessione alla fine del 2018 con un semestre di decrescita, ad aumentare l’angoscia degli imprenditori è il sospetto che il ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro, Luigi Di Maio, sembri ignorare i punti di forza e di debolezza dell’economia nazionale dopo sette mesi in carica e diversi incontri ai massimi livelli con amministratori e con associazioni di imprese. “Non è un caso – ha detto Di Maio – che i dati sul pil ci dicono che uno dei problemi principali è la produzione industriale, in difficoltà perché l’hanno resa dipendente dalle esportazioni distruggendo la domanda interna”. La crescita negativa del quarto trimestre è dovuta al calo della domanda di consumi interni che ha sormontato il sostegno positivo derivante dalle esportazioni. Senza imprese esportatrici il risultato sarebbe stato dunque peggiore ed è difficile comprendere perché Di Maio consideri l’export un handicap e non una risorsa. “Il mercato interno non è stato distrutto da qualcuno – dice Licia Mattioli, vicepresidente di Confindustria con delega all’internazionalizzazione – In realtà le esportazioni sono state una soluzione per un mercato interno che era asfittico, dobbiamo cercare di ricrearlo. Abbiamo 27 miliardi di euro in investimenti infrastrutturali bloccati per ragioni burocratiche, molti di più se contiamo tutti i cantieri sotto i 100 milioni fermi. Vogliamo aiutare il governo a ricreare il mercato domestico. Ma siamo al punto del 2014 in cui manifestavamo a Palazzo Chigi, nell’interregno tra Letta e Renzi, per ricordare che ‘non c’è ripresa senza impresa’. Siamo qui a ribadirlo a quattro anni di distanza”, dice Mattioli. L’appetito degli imprenditori per gli investimenti, secondo una nota della banca inglese Barclays, potrebbe indebolirsi ulteriormente visto il continuo deterioramento nei sondaggi della fiducia nell’economia e il calo della domanda di credito per investimenti. In un territorio come il Veneto dove il fatturato delle imprese viene per il 50 per cento dalle vendite all’estero, la preoccupazione è proprio il calo degli ordini dai mercati stranieri. “Le imprese che non stavano sul mercato hanno chiuso, ora anche quelle che hanno investito in nuovi macchinari sono preoccupati dal rallentamento – dice Agostino Bonomo, presidente di Confartigianato Veneto – ma al governo c’è scarsa conoscenza del tessuto imprenditoriale italiano e della sua proiezione internazionale”.
Bonomo, che rappresenta 60 mila piccole imprese con almeno a 34 paesi di sbocco, ravvisa una drastico calo di attenzione dell’esecutivo rispetto a operazioni a lunga gittata e a lungo termine. “Ogni nazione esportatrice dovrebbe avere delle relazioni costanti con i mercati di sbocco per creare delle situazioni favorevoli e al momento non vediamo questo impegno – dice Bonomo – Il governo precedente con il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda aveva lavorato per cercare accordi internazionali e per trovare un periodo così fiorente, da questo punto di vista. dobbiamo tornare al secondo governo Berlusconi con il ministro per il Commercio estero Adolfo Urso. A cavallo di quel periodo – aggiunge – c’era stato un boom di esportazioni con relativo miglioramento della bilancia commerciale perché, con competenza e conoscenza, i funzionari italiani avevano creato buoni presupposti per gli affari in nuovi mercati, anche emergenti. Per esempio a inizio anni Duemila siamo andati in Cambogia: era una scommessa e ora è diventato il sesto paese di riferimento per le esportazioni nello storico settore orafo”.
Alla mancanza di visione della proiezione internazionale si aggiunge la frustrazione delle produzioni interne in settori rilevanti come quello automobilistico che vale circa l’11 per cento del pil italiano e potrebbe essere il più colpito dalla congiuntura negativa europea perché essenziale per la manifattura tedesca che sta mostrando segni di debolezza. Paolo Scudieri, gruppo Adler-Pelzer Group, multinazionale di componentistica per auto con un fatturato di 1,4 miliardi di euro (90 per cento all’estero), nota che il tentativo di disincentivare le auto tradizionali a favore di quelle elettriche, che ha motivato Fiat a mettere in stand-by 5 miliardi di investimenti in Italia, dimostra che “non c’è mai stata un’accoglienza così fredda da parte di un governo verso l’impresa e l’imprenditoria italiana”. Ai richiami dell’industria automobilistica il governo sembra rimasto sordo, al momento. “Viste le scelte così penalizzanti per il settore, più che disattenzione c’è un’attenzione negativa”, dice. Le posizioni difficilmente decifrabili del governo impensieriscono anche i clienti stranieri. Scudieri ricorda che un grande produttore internazionale ha chiesto alla sua azienda maggiori garanzie per firmare un contratto, compresa quella di cambiare luogo di produzione se la situazione italiana dovesse peggiorare. “Se si mortificano le aziende il mercato interno non può ripartire perché non ci saranno risorse per investire, e con questo tipo di politica ci allontaniamo dal resto del mondo”, conclude Scudieri.