Foto LaPresse

Auto elettriche choc. Ragioni per non staccare la spina ai motori

Giuseppe Berta

Le immatricolazioni declinano e il diesel si inabissa. Dietro alla passione degli stati per l'elettrico c'è la resa incondizionata del modello industriale europeo e il rischio di una riduzione drastica dell'occupazione nel settore automobilistico. Dilemma per l'Italia

Oggi è la giornata di convocazione del cosiddetto “tavolo dell’auto”, indetto da Confindustria e dalle sue associazioni per discutere i problemi di un sistema automotive impegnato in uno dei più difficili e complessi tornanti di cambiamento della sua storia. L’incontro non poteva che tenersi presso l’Unione industriale di Torino, la città che è stata per centoventi anni il teatro delle vicende di un settore protagonista della storia industriale italiana e che oggi si interroga circa la possibilità di esserlo ancora. Mai il futuro e il destino dell’automotive sono stati più oscuri di quanto appaiano ora, perché mai esso ha dovuto affrontare una transizione tecnologica della complessità di quello odierna. Per l’Italia, poi, ciò si lega alla sorte che potrà avere una produzione automobilistica che, su scala nazionale, risulta sempre più ridotta all’osso. I dati, com’è noto, sono negativi da tempo e le ultime rilevazioni dell’Anfia, l’associazione delle imprese del settore, sono tutt’altro che confortanti. In gennaio il mercato italiano è sceso del 7,5 per cento rispetto a un anno fa, ma i marchi di Fiat Chrysler hanno avuto un calo del 21,6, quasi del triplo, dunque. Le vendite di Alfa Romeo sono scese del 45,3 per cento. Quelle di Maserati del 36,1. Numeri che testimoniano di una crisi profonda, tale da incidere pesantemente sulle nostre prospettive industriali.

 


Infografica realizzata da Enrico Cicchetti


  

Ma il fatto che Fca attraversi un periodo di assoluta incertezza circa i suoi marchi italiani non è di sicuro una novità del 2019. Chi va alla ricerca di un segnale dei tempi nuovi, lo troverà altrove, nelle cifre impressionanti che segnalano il declino delle vetture diesel: per la prima volta dal settembre 2013 esse non sono più le regine del mercato e cedono il passo a quelle a benzina. Queste ultime rappresentano ora il 45 per cento del mercato, mentre quelle diesel scendono al 41, con un calo di vendite del 31.

 

Si è quindi compiuto il cambio negli orientamenti dei consumatori, i quali si sono convinti, sulla base di quello che è stato detto e ripetuto un po’ da tutti nel corso dell’ultimo anno, che il momento del diesel è tramontato per sempre. In attesa che la rivoluzione tecnologica annunciata universalmente si realizzi, coloro che devono sostituire l’auto tornano ai modelli a benzina (mentre non pochi rinviano l’acquisto in attesa di capire che cosa succederà). E’ una scelta razionale? Lo è se si considera l’unanimità dei pronostici secondo cui il futuro apparterrà all’auto elettrica, almeno quando le condizioni lo permetteranno.

 

Peccato che questa visione del domani condanni in maniera quasi irrimediabile proprio il nucleo del sistema produttivo della città che ospita oggi il “tavolo dell’auto”. Anche se si farà la 500 “full electric”, che Fca ha comunicato di aver messo in programma per il 2020, è chiaro che i suoi volumi non potranno essere tali da riscattare la caduta produttiva ormai in atto. Per sopravvivere, molte delle imprese della componentistica dovranno condurre a termine una riconversione radicale. Un mutamento capace di scuotere le radici del sistema industriale di Torino e, in parte, anche del paese. Il rischio di una simile trasformazione tecnologica e produttiva è stato messo in chiaro da un imprenditore del calibro di Alberto Bombassei in una bella e ampia intervista (rilasciata per la serie “A tavola con…” di Paolo Bricco sul Sole-24 Ore del 27 gennaio scorso). Nessuno – ha detto il business leader di Brembo – valuta l’impatto sociale dell’opzione per l’auto elettrica, che suscita un grande entusiasmo un po’ ovunque. “In Europa – prosegue Bombassei –, se smettessimo di produrre macchine a gasolio o a benzina e facessimo soltanto più auto elettriche perderemmo un lavoratore su tre. Compri il motore, compri la batteria e il 60 per cento del valore dell’auto ce l’hai. Ma un milione di europei non avrebbe più una occupazione”.

 

E’ addirittura il modello industriale europeo a essere messo in questione, perché è l’Europa ad avere inventato il diesel, una specializzazione produttiva che è stata costruita negli ultimi sessant’anni in Germania, in Francia e in Italia. Si domanda Bombassei come sia possibile che persino a Bruxelles, a Berlino e a Parigi, “non ci si renda conto che, nelle loro ultime versioni, i motori a gasolio inquinano, complessivamente, meno di quelli ibridi”.

 

Una considerazione, questa, che dovrebbe suscitare ancora più interesse, visto che Bosch sta mettendo a punto un nuovo, sofisticatissimo sistema di iniezione per i motori diesel destinato a ridurre ulteriormente le emissioni. Eppure, in Germania – come nota ancora Bombassei – si sono approvati piani di investimento colossali in favore delle piattaforme elettriche, senza che le istituzioni, di solito così portate a sostenere il sistema industriale, si adoperassero non certo per bloccare il mutamento del paradigma tecnologico, ma per diluirlo e graduarlo nel tempo.

 

Il sistema internazionale dell’auto si è ormai calato in un processo di trasformazione dagli sbocchi estremamente incerti con un atteggiamento che sfiora la temerarietà. Nessuno sa quali saranno i ricavi e soprattutto i profitti che consentiranno le piattaforme elettriche di domani. Così come nessuno sa quando si produrrà quella magica combinazione fra tali piattaforme e le tecnologie per la guida autonoma a cui i profeti del futuro demandano la mobilità dell’avvenire. E nessuno, alla fin fine, può prevedere la reazione dei mercati a questi cambiamenti, che già ora impongono costi elevatissimi per quanto riguarda i capitali necessari agli investimenti e i tagli di capacità produttiva e di occupazione stabiliti di conseguenza (si pensi alla riduzione di oltre 14 mila posti di lavoro già deliberati da General Motors in nord America e anche a quella di 7 mila posti annunciata per la prima volta da Volkswagen in Germania).

 

All’inizio del 2019, la domanda di autoveicoli si annuncia in discesa in Cina, negli Stati Uniti e in Europa. In parte, il calo della domanda è legata alla crescente diffidenza e prudenza dei consumatori dinanzi a questo radicale mutamento di scenario, che sembra rovesciare un secolo di storia dell’autoveicolo. Se il Novecento industriale si era aperto con la Ford Model T che prometteva a tutti la mobilità territoriale, il Ventunesimo secolo si apre invece sulla visione di società in cui non crescerà più il numero dei veicoli, grazie a un utilizzo molto maggiore reso possibile dal “car sharing” e dai sistemi driverless (i quali tuttavia sono ancora molto lontani dal tradursi in realtà).

 

Anche ai primi del Novecento, quando Ford non aveva ancora fatto trionfare il proprio standard, alle prime esposizioni di automobili i modelli elettrici non erano stati una rarità. Ma ben presto il motore a scoppio aveva avuto la meglio: dietro il suo successo c’era l’ascesa dell’economia americana e di una potenza imprenditoriale come la Standard Oil, con la moltiplicazione delle trivellazioni e dei pozzi di petrolio.

 

Ora, dietro l’affermazione apparentemente irresistibile del paradigma elettrico, si intravede una pluralità di fattori, dall’ambientalismo ai progetti futurologici di Elon Musk (una sorta di vendicatore postumo di Nikola Tesla e della sua convinzione del primato dell’elettricità) fino al ruolo di superpotenza della Cina che, come dice ancora Bombassei, sostenendo il primato dell’elettrico, persegue la propria supremazia.

 

Certo, i produttori europei ci hanno messo del loro nell’opera di delegittimazione del diesel. Non c’è dubbio che il Dieselgate abbia avuto un ruolo di spartiacque nella storia dell’auto e che le sanzioni e le pesanti multe comminate alle case produttrici per la manomissione dei dati relativi alle emissioni abbiano impresso una forte accelerazione a un mutamento tecnologico che non ha le proprie radici in Europa.

 

Questo non rappresenta comunque un buon motivo per una resa incondizionata del nostro modello industriale continentale, proprio quando i modelli industriali asiatici e americani tendono a fortificarsi. L’Europa è ancora in tempo per orientarsi verso una maggiore gradualità in una transizione tecnologica che potrebbe essere affrontata con più discernimento. E che pone definitivamente a repentaglio la continuità della presenza dell’Italia nella produzione automobilistica.

Di più su questi argomenti: