Come cambia il reddito di cittadinanza tra palco e realtà
Dagli industriali alla chiesa, tutti in audizione al Senato hanno espresso dubbi e perplessità. Il M5s deve scegliere se correggere le storture oppure continuare con i suoi show
Roma. Le osservazioni raccolte in Senato negli ultimi due giorni di audizioni sul Reddito di cittadinanza hanno confermato ciò che in molti già sospettavano: la misura è limitata, complicata e per alcuni versi persino potenzialmente dannosa. Questa volta per il governo sarà difficile negare tutte le debolezze emerse, almeno per via della varietà dei soggetti coinvolti. Nel gruppo dei relatori ci sono associazioni e istituzioni che non possono essere respinte come detrattori: se con l’Inps di Tito Boeri qualche attrito c’è già stato, così come con l’Ufficio parlamentare di Bilancio, in questo ciclo di audizioni ci si aspettava almeno il sostegno di sindacati e terzo settore. E invece il tentativo di conciliare la lotta alla povertà con le politiche per il lavoro, senza disporre di un adeguato finanziamento e senza rinunciare alla fretta di liquidare il primo assegno ad aprile, ha scontentato sia chi si occupa di inclusione sociale sia chi si dedica alla tutela dei lavoratori. Lo hanno fatto notare i sindacati, dicendo che la norma ha “un carattere ibrido” e “coniuga in modo improprio la povertà come criterio di accesso e le politiche attive come interventi previsti”. E lo hanno spiegato anche la comunità di Sant’Egidio, la Caritas e la Cei, secondo cui il decreto potrebbe avere un impatto insufficiente dal punto di vista sociale. Ci sono “gravi criticità che potrebbero essere corrette”, ha detto la Caritas, perché l’esclusione delle fasce più povere della popolazione “rischia di ledere i diritti costituzionali e le normative europee”: ci potrebbe essere, ha aggiunto, “una revisione della norma che costringerà a modificare anche l’attuale previsione finanziaria”.
L’altro aspetto è quello dell’attuazione. Gestire le pratiche – 1,5 milioni secondo le attese del governo, 1,3 secondo l’Istat – non è un affare semplice e a preoccuparsene sono i comuni, che con quota cento perderanno circa 50 mila dipendenti nei prossimi 12-18 mesi, hanno detto i rappresentanti Anci ai senatori: “Questo vuol dire non avere personale da dedicare all’istruttoria per l’emissione del reddito di cittadinanza”. All’anagrafe comunale si occuperanno dei controlli relativi alla residenza e il vincolo dei dieci anni fissato dal decreto “richiede tempi molto lunghi”. Altre perplessità sono emerse sulla capacità dei centri dell’impiego di affrontare il carico di lavoro previsto. I rappresentanti di regioni e province, Confindustria e la Corte dei Conti hanno fatto notare che queste strutture potrebbero non essere pronte e che il loro rilancio è “difficile in tempi brevi”. Secondo la relazione presentata in Senato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro, ogni operatore dei centri per l’impiego potrebbe dover prendere in carico 506 beneficiari del Rdc. Come se tutto ciò non bastasse, Boeri e Pierangelo Albini (Confindustria) hanno anche fatto notare che in base al reddito medio di giovani under 30 e dei dipendenti privati nel sud Italia, il rischio che il Rdc diventi un deterrente ad accettare proposte di lavoro è abbastanza concreto. Lo pensa anche l’Ufficio parlamentare di bilancio, che vede nel sistema dei controlli l’unico argine a comportamenti opportunistici. E sarà un bene che le verifiche siano accurate, perché secondo l’Upi lo stato potrebbe arrivare a pagare fino a 2 miliardi in più se i potenziali percettori del Rdc che oggi lavorano decidessero di licenziarsi per ricevere l’assegno pieno.
Fino a ora il M5s ha scelto di nascondere tutte queste debolezze, preferendo organizzare palchi e show da cui raccontare una versione rovesciata della storia. Ora ha due scelte: correggere le storture – il decreto deve essere convertito entro il 29 marzo – o sperare che gli esperti di marketing della Casaleggio Associati riescano nell’intento di distrarre tutti, almeno fino alle prossime elezioni europee.