Lo stato compra ancora

L’attivismo dei governi in economia è un destino inevitabile? E’ il mercato a dover essere il “padrone”? Pubblico vuol dire efficienza? Gran duello tra visioni opposte

Leviatani

di Stefano Clò e Gustavo Piga

 

Nell’ultimo decennio, la gestione dei servizi di pubblica utilità – dall’acqua ai trasporti, passando per energia e telecomunicazioni – è stata interessata da un ritorno generalizzato dello Stato. Questo fenomeno non interessa solo i paesi socialisti dell’America Latina o i paesi in via di sviluppo, spesso con regimi non democratici. La tendenza a un ritorno del pubblico nella gestione dei servizi a rete sta ora interessando – seppur con diversa intensità tra paesi e settori – anche l’area Ocse: Danimarca, Germania, Francia, Norvegia, Svizzera, Giappone; perfino la Gran Bretagna, un tempo icona pionieristica delle privatizzazioni, sta facendo marcia indietro. Sul New York Times del 22 dicembre 2018, il premio Nobel Paul Krugman sostiene le opportunità di un’economia mista in cui proprietà e controllo pubblico rappresentano una componente importante per sopperire alle criticità legate a una gestione privata di servizi pubblici. Anche in Italia si torna a discutere di gestione pubblica e privata, se sia preferibile l’una o l’altra. Torniamo così a sentire due posizioni, contrapposte, che ci ripropongono, con minime variazioni sul tema, le stesse argomentazioni che hanno alimentato il dibattito nei decenni passati: che l’impresa pubblica è inefficiente e soggetta a interferenza politica o che l’impresa privata persegue unicamente interessi di profitto a scapito dei consumatori. Manca una adeguata contestualizzazione capace di tenere conto dei mutati assetti organizzativi dei mercati e delle imprese stesse, probabilmente a sua volta figlia di una presa d’atto che la divisione ideologica sul tema non rende servizio alle esigenze operative delle imprese e a quelle sociali del territorio. Chiediamoci: perché oggi si torna a guardare alla gestione pubblica? La risposta è che le privatizzazioni, le modalità con cui sono state attuate, la qualità della regolazione che le ha accompagnate, hanno condotto, in diversi casi, a risultati insoddisfacenti, molto distanti da quelli attesi. Negli anni Novanta la riforma di privatizzazione era stata sostenuta come un passaggio obbligato anzitutto per ridurre il debito pubblico, e poi per accrescere la produttività di impresa e, in via definitiva, per migliorare la qualità dei servizi e favorire una loro fornitura a prezzi più vantaggiosi per i consumatori. Così non è stato. La privatizzazione non è stata una soluzione strutturale al problema del debito, né ha favorito una riduzione dei prezzi. Privatizzazioni sono state associate a una riduzione di investimenti in ricerca e sviluppo, condizione necessaria a promuovere efficienza dinamica e a garantire la qualità dei servizi. Con le riforme di mercato e di impresa si è andato progressivamente assottigliando il principio di universalità dei servizi di pubblica utilità. In Europa, la povertà energetica è un problema nuovo e crescente, con famiglie costrette a scegliere tra illuminarsi o riscaldarsi. Sentire oggi parlare di nuovi piani di privatizzazione semplicemente non risulta una politica credibile.

 

Diversi studi sugli effetti delle riforme avviate negli anni Novanta ci insegnano oggi che, laddove miglioramenti attesi si siano effettivamente concretizzati, essi sono imputabili principalmente al processo di liberalizzazione. E’ stata l’apertura dei mercati alla competizione il vero motore dell’efficienza, non la natura proprietaria in sé. Nel settore elettrico, per sopperire alla riluttanza dei privati a investire adeguatamente in un contesto di mercato, perfino il Regno Unito  è tornato a un modello di programmazione  o comunque di dirigismo centralizzato. L’esempio più eclatante è l’accordo concluso nel 2016 dal governo inglese  a trattativa privata  e senza procedure d’asta con Edf Energy e China General Nuclear Power per la costruzione di due reattori nucleari a Hinkley Point a un prezzo prefissato per 35 anni, due volte superiore a quello di mercato, e aggiornabile al tasso di inflazione. Non solo investimenti insufficienti, ma anche altri fattori sollevano la necessità di rivedere pregi e virtù associati alle privatizzazioni. Nel Regno Unito, alle imprese privatizzate erogatrici di servizi idrici sono associati prezzi più alti e uno stato di salute aziendale peggiore rispetto agli omologhe pubbliche. Alcune compagnie idriche private fortemente indebitate (Anglian Water, Yorkshire Water, Severn Tern Water) in dieci anni hanno pagato dividendi superiori agli utili conseguiti. In pratica, imprese che si sono indebitate non per fare investimenti necessari a garantire un servizio ottimale, ma per garantire elevati dividendi agli azionisti privati. Non sorprendiamoci, o indigniamoci, se oggi anche in Gran Bretagna si osservano nuove pressioni a favore di quei processi di rimunicipalizzazione dei servizi idrici che hanno già interessato città importanti come Parigi, Amburgo o Berlino e che, nei paesi scandinavi, rappresentano un modello organizzativo e gestionale ottimale. Gli esempi di fallimento delle privatizzazioni implicano necessariamente che la gestione pubblica sia sempre preferibile a quella privata? Ovviamente no, esistono casi di privatizzazioni di successo. La vera questione da affrontare non è se sia meglio l’impresa pubblica o quella privata, ma quando, in quali condizioni, e rispetto a quali obiettivi sia preferibile optare per l’uno o l’altro modello proprietario. Una nuova letteratura, ampiamente ignorata nel dibattito odierno, dimostra che, laddove attuate, le riforme di mercato e di governance sono state capaci di far venire meno le principali fonti di inefficienza dell’impresa pubblica. Uno studio sul settore energetico europeo pubblicato nel 2016 sull’Oxford Bullettin of Economic Studies dimostra che nei paesi ad alta qualità istituzionale, con basso rischio di corruzione e con modelli di regolazione efficienti, le imprese a controllo pubblico mostrano una produttività superiore rispetto alle imprese private, mentre il contrario si verifica in paesi a bassa qualità istituzionale. Altri studi recenti dimostrano che, a fronte di importanti riforme, le imprese pubbliche hanno maggiormente orientato le proprie strategie verso logiche di mercato senza tuttavia rinunciare ad altri obiettivi di interesse sociale. Diversi studi hanno inoltre dimostrato che i processi di privatizzazione hanno dato luogo a un aumento dei prezzi, a una riduzione degli investimenti in Ricerca e Sviluppo o a un peggioramento della performance ambientale. A seguito di privatizzazioni tramite Opa o a elevato leverage, l’orientamento dei nuovi azionisti privati è stato rivolto ai risultati trimestrali e a una rapida copertura dei debiti. Un short-termism difficilmente coniugabile con una visione lungimirante necessaria per una gestione efficiente e socialmente ottimale dei servizi di pubblica utilità. Per contro, a fronte delle riforme di governance, il rispetto dei vincoli di pareggio di bilancio è divenuta una condizione sine qua non di sostenibilità economica anche per le aziende a controllo pubblico, soprattutto per quelle miste tenute a rendicontare anche agli azionisti privati. Ma diversamente da fondi di investimento privati, orientati verso tassi di rendimento degli investimenti superiori al 10 per cento, gli azionisti pubblici possono (dovrebbero) orientarsi su ritorni economici inferiori, così da poter coniugare performance economica con altri obiettivi di interesse generale (qualità ambientale, sostegno alla ricerca e sviluppo o contenimento dei prezzi). Questi risultati non possono essere ignorati in un confronto costruttivo, ma nemmeno ci devono portare a concludere che l’impresa pubblica rappresenti la panacea a tutti i problemi che interessano la gestione dei servizi pubblici. Diversi sono i casi in cui, l’assenza di un contesto concorrenziale, mancate riforme di governance interna e bassa qualità istituzionale sono causa di inefficienze gestionali del pubblico. Queste nuove evidenze devono servirci a superare l’equazione dogmatica tra gestione pubblica e inefficienza, identificando le condizioni che permettono all’impresa pubblica di migliorare l’efficienza, di coniugare le logiche di mercato a obiettivi sociali che il privato non ha interesse a perseguire. Condizioni da cercare nei modelli organizzativi di impresa, nelle riforme di mercato, nella qualità delle istituzioni e della regolazione e nella volontà fattiva dei governi di investire nel settore pubblico risorse destinate a competenze e investimenti.

 


  

Stefano Clò (Università degli studi di Firenze) e Gustavo Piga (Università Tor Vergata) fanno parte dell’advisory board del Gruppo Cap

Leoni

di Serena Sileoni e Carlo Stagnaro

 

Mentre globalizzazione e innovazione tecnologica stanno cambiando radicalmente le nostre economie, gli Stati quasi ovunque cercano conforto nei vecchi arnesi della politica industriale. Ne è un esempio, anche in Italia, il generale auspicio del ritorno dello Stato-imprenditore. Un filo rosso lega il referendum per l’acqua pubblica nel 2011 e il fallimento di quello romano sul trasporto pubblico locale, il boom del Movimento 5 stelle e la trasformazione corporativa e nazionalista della Lega, i rigurgiti interventisti dei governi di centrosinistra nella scorsa legislatura (a partire dalla continua invocazione della Cassa depositi e prestiti) e la definitiva rottura della diga in quella attuale, nella quale non c’è più alcuna remora nel parlare di nazionalizzazioni e imprese pubbliche. Siamo arrivati addirittura alla proposta, o minaccia, di fare della Cdp il “partner strategico di 60 mila piccole e medie imprese”.

 

Per ogni questione o problema sollevato dal settore privato (dalla ciclica crisi di Alitalia al controllo sui concessionari stradali) la reazione si fa opposta a quella di appena un ventennio fa, quando furono proprio le inefficienze dello Stato imprenditore a consentire la privatizzazione e l’apertura alla concorrenza di ampi e importanti settori dell’economia. Sembra che, almeno per ora, la fase di cessione delle partecipazioni pubbliche si sia esaurita. Non tanto perché sia rimasto poco da privatizzare, anzi: lo Stato detiene la partecipazione diretta, di maggioranza o di controllo, di più di trenta società, tra cui Ferrovie, Anas, Poste, Rai, Enel, Eni e Leonardo, senza contare le migliaia di partecipazioni degli enti locali. Se si è smesso di privatizzare, è per una resistenza ideologica che ha messo in moto il processo contrario.

 

Negli ultimi anni, il Leviatano – direttamente o indirettamente – ha alzato la testa in diversi mercati, da quello alberghiero attraverso la Cdp passando per il takeover sovranista di Trussardi fino all’operazione Open Fiber, che ha riportato la politica al centro del risiko delle telecomunicazioni. In molti altri si sta attrezzando a un rientro in grande stile: l’abbandono della quotazione delle Ferrovie e la rinuncia alla vendita di Mps, la possibile nazionalizzazione della rete Tim e la crescita della Cassa nell’azionariato della compagnia telefonica, l’ingresso del Mef e delle Ferrovie in Alitalia e il dossier Carige. Addirittura, la proposta di legge per l’acqua pubblica vuole rottamare, oltre agli azionisti privati, le forme societarie di diritto privato, mentre il dibattito pubblico sul capitalismo municipale pare essersi esaurito. In altri ambiti ancora la politica si è insinuata dalla porta di servizio: la riforma della golden power e la cosiddetta norma anti scorrerie, che di fatto sterilizza lo strumenta dell’Opa ostile, mettono in campo un esplicito potere di interdizione politica sulle operazioni di mercato.

 

Quello che preoccupa, insomma, non è tanto il rallentamento nelle privatizzazioni, peraltro a dispetto delle continue e mirabolanti promesse nei documenti governativi (l’attuale esecutivo ha fissato un target pari a circa 18 miliardi, un punto di pil). Il problema sta semmai nell’abbandono delle ragioni che, nel passato, hanno condotto (spesso con successo, anche se non sempre) a privatizzare asset pubblici. I critici delle privatizzazioni generalmente ne evocano due: “fare cassa” e ridurre le inefficienze nelle ex imprese pubbliche. In effetti, in Italia i processi di cessione sono stati perlopiù disegnati con tali finalità. La sovrapposizione della prima sulla seconda ha fatto sì che, una volta incassati i proventi delle vendite, si sia ritenuto esaurito il compito di creare le condizioni per una maggiore efficienza, dimenticando il ruolo cruciale che gioca in tal senso non la privatizzazione in sé, ma la liberalizzazione del settore. Ciò ha condotto, in alcuni casi, a blindare posizioni monopolistiche; in altri a mantenere comunque il controllo pubblico. La privatizzazione parziale, allo stesso modo, può avere effetti benefici sull’impresa privatizzata, ma lascia inalterata la percezione di un mercato comunque non del tutto contendibile.

 

Secondo i fautori dello Stato in economia, basterebbe un’adeguata governance a garantire l’efficienza, senza dover necessariamente prevedere l’azzeramento del capitale pubblico. Tale approccio ignora però quello che è (o dovrebbe essere) il principale scopo della privatizzazione: garantire non una diversa ingegneria societaria, ma libertà di scelta da parte del consumatore in modo tale che egli diventi l’arbitro della competizione fra più fornitori. In altri termini, una coerente politica di privatizzazioni, condotta fino in fondo e non solo per fare cassa, sposta il baricentro dell’interesse pubblico dall’impresa al mercato e, quindi, a tutti i consumatori – ed è dunque inscindibile dall’apertura del mercato. Non è impossibile immaginare un monopolio pubblico efficiente. Tuttavia, di fronte all’eventualità assai più probabile di un monopolista pubblico inefficiente, non esiste un’alternativa. Peraltro, senza le pressioni della concorrenza, tale monopolio inevitabilmente finirà per diventare un ostacolo all’innovazione. Non per cattiveria ma per gli incomprimibili limiti cognitivi dell’essere umano: le informazioni dei molti, che il sistema economico sintetizza attraverso i prezzi, non possono essere centralizzate senza perderne una gran parte. Neppure la competizione tra aziende pubbliche (o miste) e private in un mercato formalmente liberalizzato rappresenta una soluzione. In primo luogo, i potenziali competitor prima di investire si chiederanno se, e fino a che punto, l’impresa pubblica abbia un accesso privilegiato alle segrete stanze. Il mero sospetto di una maggiore efficacia nella cattura dei regolatori implica un maggiore costo di entrata sul mercato, una più bassa propensione al rischio di impresa e quindi, a parità di altri elementi, una minore intensità competitiva. Secondariamente, la concorrenza non si esaurisce nella libertà di scelta dei consumatori: presuppone anche che le imprese meno efficienti siano espulse dal mercato, e i loro asset siano tanto contendibili quanto le loro quote di mercato. La partecipazione pubblica al capitale di un’impresa è de facto (anche se non necessariamente de jure) incompatibile col fallimento.

 

Da ultimo, e per le ragioni appena dette, il ritorno della proprietà pubblica equivale quasi per definizione a un dazio sull’innovazione e, quindi, sul tentativo di anticipare e soddisfare i bisogni delle persone. Non vale neppure l’osservazione che l’azionista pubblico, non avendo come principale obiettivo la massimizzazione degli utili, potrebbe favorire maggiori investimenti in ricerca e sviluppo: la storia delle imprese di Stato è piena di ottime idee, generosamente finanziate, finite in un vicolo cieco. Succede anche nel mercato. Solo che in questo caso il loro fallimento non grava sulla collettività. L’innovazione non nasce (solo) dai soldi, ma da un processo di tentativi e fallimenti che è reso possibile – anzi necessario – da un ambiente aperto. Il capitalismo di Stato darà maggiore capacità di intervento alla politica e alla burocrazia, magari con le più nobili intenzioni, ma renderà la società nel suo complesso meno dinamica e plurale e, soprattutto, infiacchita da uno Stato tuttofare. Questo spiega perché appaia tanto seducente per i politici stessi: per la medesima ragione, dovrebbe essere visto con diffidenza da tutti gli altri.

Di più su questi argomenti: