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Tre idee contro i populisti

Antonio Misiani

Povertà, sviluppo, tasse, green economy. Che idee hanno i candidati del Pd in economia? Il piano in 3 punti (da 3 punti di pil) di Zingaretti spiegato dal coordinatore della sua mozione

Il tre marzo gli elettori del Pd decideranno chi tra Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti sarà il prossimo segretario. Il Foglio da oggi e per i prossimi giorni ospita i programmi in materia di politica economica scritti dai principali collaboratori dei candidati alla segreteria.

 

Il primo testo che trovate qui di seguito è firmato da Antonio Misiani, deputato del Pd, coordinatore della mozione Zingaretti.

 


  

L’Italia sta andando contro un muro, ma il governo parla d’altro. D’altronde, la narrazione nazionalpopulista trionfa quando può fomentare paura (degli immigrati) e odio (contro l’élite). Balbetta di fronte alla dura realtà di un’economia che con il governo gialloverde sta arretrando. Sulla recessione italiana pesano fattori internazionali, indubbiamente, a partire dalla guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina (un esempio delle magnifiche e progressive sorti del sovranismo…) e dal rallentamento dell’economia tedesca. Il grosso, però, è farina del sacco M5s-Lega: l’indebolimento della domanda interna è legato, come ha spiegato il governatore della Banca d’Italia, al “marcato aumento dell’incertezza legato prima ai dubbi riguardo alla partecipazione alla moneta unica, poi al difficile percorso che ha portato alla definizione della legge di bilancio”.

 

Il decreto dignità ha assestato un primo colpo all’economia. La legge di bilancio ha completato l’opera. Una manovra espansiva era necessaria. Quella gialloverde, però, ha concentrato tutte le risorse su due provvedimenti-bandiera assistenziali (reddito di cittadinanza e quota 100), azzerando gli spazi per le misure di crescita e ipotecando il futuro con una pesantissima clausola di salvaguardia IVA. Risultato? L’“espansione recessiva” profetizzata dall’economista Olivier Blanchard: spread raddoppiato, economia in frenata, deficit e debito fuori controllo. “E allora il Pd”? Il lavoro e l’economia sono la cartina di tornasole per la costruzione di un’alternativa credibile al “governo della decrescita infelice”. Il programma di Nicola Zingaretti su questi temi parte da un assunto: la debolezza strutturale dell’economia italiana non è solo un problema di offerta (il declino della produttività) ma anche di sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo. I governi di centrosinistra hanno migliorato gli indicatori macroeconomici, rimesso sotto controllo i conti pubblici e promosso riforme importanti. A dieci anni da Lehman Brothers, però, non abbiamo ancora recuperato quanto perso con la crisi. L’Italia è trainata da 4 mila e cinquecento medie e grandi imprese che realizzano il 73 per cento dell’export ma le PMI chiuse ai mercati esteri arrancano. Le disuguaglianze sociali e territoriali sono cresciute anche negli anni della ripresa e frenano la domanda interna. La “green economy” vale 3 milioni di occupati e il 13 per cento del pil, ma la questione ambientale nel nostro Paese è vissuta più come un vincolo che come un’opportunità. In sintesi: l’Italia non è su un sentiero di sviluppo sostenibile. E’ un problema serio, perché le disuguaglianze rendono le società più infelici (come hanno dimostrato i libri di Richard Wilkinson e Kate Pickett). E l’infelicità è l’anticamera della depressione e del rancore. Di fronte a nodi di questa portata, non bastano piccoli aggiustamenti. L’Europa deve archiviare definitivamente l’austerità in favore di politiche più rivolte allo sviluppo e alla coesione. L’Italia deve dotarsi di una strategia di ampio respiro, che vada oltre il pil e faccia propri gli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Una strategia per indirizzare il paese verso una crescita inclusiva e sostenibile che offra un lavoro dignitoso per tutti. L’“economia giusta” di cui parla Zingaretti.

 

La via maestra si chiama: investimenti, investimenti, investimenti. Quelli pubblici sono al minimo storico. Dobbiamo riportarli al 3 per cento del PIL. Ance ha contato 27 grandi opere ferme di valore superiore a 100 milioni, che valgono 24,6 miliardi e 380 mila posti di lavoro. Un governo degno di questo nome lavorerebbe giorno e notte per sbloccarle. Il ministro Toninelli sta facendo esattamente il contrario. La scommessa più importante, però, è un rilancio in grande stile degli investimenti degli enti locali, orientandoli verso due grandi obiettivi: 1) l’adattamento ai cambiamenti climatici; 2) le infrastrutture sociali (asili, scuole, strutture per anziani e disabili). Tutti interventi ad alto impatto occupazionale, che potrebbero essere finanziati in primo luogo accelerando l’utilizzo dei 140 miliardi stanziati dai governi di centrosinistra. Gli investimenti privati sono un altro punto dolente. La legge di bilancio ha indebolito molti incentivi di Industria 4.0, che andrebbero ripristinati. Ma il tema è più ampio e richiede da una parte un fisco che premi selettivamente le imprese che innovano e che puntano sulla sostenibilità (per esempio, dimezzando l’IRES alle aziende con certificazione ambientale e sociale e con una forbice salariale massima di 1:20), dall’altra un ridisegno strategico delle politiche industriali. Migliorare il “contesto” (semplificazione, tempi di pagamento, infrastrutture, ecc.) è importante. Decisivo, però, è un ruolo più attivo del sistema pubblico, con la costruzione di una rete pubblico-privata della ricerca applicata, la promozione di un programma strategico per la creatività e di canali innovativi di finanziamento delle imprese. Anche le famiglie possono fare molto: oggi hanno liquidità e depositi bancari per 1.360 miliardi (+32 per cento in dieci anni). Incentivarne un maggiore impiego nel sistema produttivo – per esempio attraverso la riqualificazione energetica e sismica delle case – darebbe una grande spinta all’economia. La terza tipologia di investimenti da favorire sono i figli. Sì, proprio i figli. L’’inverno demografico” non è un destino ineluttabile, come insegna la Francia. E’ necessaria però una rivoluzione copernicana del fisco e del welfare. Ai giovani, le prime vittime della crisi, dobbiamo destinare almeno un punto di PIL, 18 miliardi, per finanziare il miglioramento dei servizi per l’infanzia e del sistema scolastico e universitario, il potenziamento del diritto allo studio, un assegno unico per sostenere le famiglie con figli a carico, una dote per aiutare i 18enni meno abbienti nei loro progetti formativi o lavorativi.

 

Il secondo nodo scorsoio dello sviluppo italiano sono le disuguaglianze, che la rivoluzione tecnologica rischia di aggravare. L’Italia deve dotarsi di una vera e propria “agenda per l’uguaglianza”. Il sistema fiscale va reso maggiormente progressivo, riducendo la pressione sui redditi da lavoro medio-bassi (cuneo fiscale) e sui carichi familiari (figli e familiari non autosufficienti) ridimensionando le detrazioni e le deduzioni per i redditi più elevati, rivedendo (a parità di gettito) gli estimi e i classamenti catastali. Sradicare la povertà assoluta è un obiettivo di civiltà. Il governo gialloverde ha stanziato molti soldi (bene) ma ha cancellato una misura che funzionava, il reddito di inclusione, per introdurre ex novo uno strumento confuso e pasticciato, il reddito di cittadinanza (male). Il Pd deve combattere in Parlamento per cambiarlo, superando il vincolo (incostituzionale) dei 10 anni di residenza, modificando i criteri di erogazione che penalizzano le famiglie numerose e scoraggiano il lavoro regolare, restituendo centralità ai comuni, alle regioni e al terzo settore. Un salario minimo legale per i dipendenti non coperti da contrattazione collettiva e l’attuazione dell’equo compenso per gli autonomi aiuterebbero a ridurre la piaga dei “lavoratori poveri”, triplicati negli ultimi dieci anni. E’ necessario fare ripartire l’ascensore sociale, attraverso politiche “predistributive”: investire nel sistema scolastico, universitario e sanitario; aiutare maggiormente chi vive in affitto; ridurre le differenze di genere nella sfera lavorativa e familiare (l’Italia è al 70° posto nel Global Gender Gap Index 2018, tra Montenegro e Tanzania). Un codice del lavoro semplificato potrebbe mettere a sistema regole e tutele per ridurre la precarietà e favorire il lavoro stabile, cambiando le cose che non hanno funzionato del Jobs Act ma anche rivedendo il decreto dignità. Incentivare la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è una idea da riprendere in considerazione, nella prospettiva di una massiccia automazione del lavoro. Un sistema pensionistico più flessibile è necessario, ma per mandare in pensione prima chi ha più bisogno (disoccupati, chi fa lavori usuranti, discontinui e stagionali) piuttosto che spendere miliardi per misure una-tantum come quota 100. Per i giovani bisognerebbe prevedere una pensione minima di garanzia. Le disuguaglianze territoriali sono l’altra grande ferita da ricucire, evitando che l’autonomia differenziata di alcune regioni diventi una “secessione dei ricchi”. Il Mezzogiorno è uscito dalla crisi a pezzi e questo spiega molto del terremoto elettorale del 2018. Qualcosa aveva iniziato a muoversi, nella passata legislatura, ma troppo poco e troppo tardi. Bisogna ripartire dalle condizioni di contesto – servizi, infrastrutture, lotta alle mafie – e dagli investimenti. Il futuro è la nuova centralità del Mediterraneo nelle rotte globali: le coste e i territori del Sud sono una piattaforma naturale per cogliere questa grande opportunità. Una ulteriore linea di frattura territoriale è quella che separa le zone urbane dalle aree interne e, nelle metropoli, i centri dalle periferie. Anche in questo caso i governi a guida Pd avevano avviato interventi importanti - la Strategia nazionale per le aree interne e il Piano periferie – che andrebbero consolidati e rafforzati.

 

Quanto costa la proposta economica di Zingaretti? A regime, circa tre punti di PIL di risorse aggiuntive. Due per gli investimenti pubblici e per i giovani, uno per ridurre le disuguaglianze. Dove trovare le coperture? Come salvaguardare la (necessaria) riduzione del rapporto debito-pil? Lavorando su tre fronti. Primo: la revisione della spesa pubblica, che il governo gialloverde ha colpevolmente archiviato. Non si parte certo da zero, ma molto può e deve essere fatto. Gli acquisti di beni e servizi della PA, per esempio, valgono 5 punti di pil. Quelli centralizzati nel 2018 sono stati il 14 per cento del totale, a prezzi mediamente inferiori del 15 per cento. Aumentarli permetterebbe di risparmiare miliardi. Secondo: l’evasione fiscale, che sottrae ogni anno allo Stato circa 110 miliardi (6 per cento del PIL). La digitalizzazione dei pagamenti (puntando in tempi ragionevoli ad un’Italia “cashless” = senza contanti) è una chiave importante per abbatterla. Terzo: la giungla di agevolazioni fiscali (3 per cento del PIL) e sussidi ambientalmente dannosi (1 per cento del PIL). Metterci mano è una scelta politica complicata, ma necessaria. Tutto e subito è impossibile, ovviamente. Ma in un’ottica pluriennale, si può fare parecchio. E come dice un vecchio proverbio, chi non comincia, non può finire.